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di AGAZIO LOIERO

UNA felice sinergia tra la casa editrice Rubettino, che ha rilanciato il famoso capitolo sulla Calabria tratto dal volume “L’Inferno” di Giorgio Bocca del 1992, ed il direttore di questo giornale che ha anticipato una bella introduzione al testo di Eugenio Scalfari, ha riaperto un dibattito sulla Calabria e il Sud. Parto dalla parola, ripetuta tre volte, con cui Scalfari chiude la sua prefazione: “Money, money, money….” . Se c’è una cosa che dà la dimensione sconvolgente della Calabria degli ultimi cinquanta anni è il suo rapporto con il denaro. Essendo vissuto infatti a cavallo tra due stagioni, sono in grado di confrontare quella lontana con quella presente. Malgrado il grande mutamento degli ultimi decenni abbia sfregiato il volto della Regione, conservo in un’enclave della memoria una Calabria segreta, non immaginaria, cioè non forzata dall’indulgenza che in genere si riserva al tempo della giovinezza, ma reale.

Pur considerando i disagi d’allora che sarebbero oggi insopportabili, sul piano del costume, della solidarietà tra gli uomini e soprattutto del gusto, la caduta della Calabria d’oggi rispetto a quella di ieri è verticale. L’ex direttore di Repubblica afferma di essere vissuto da noi per un anno e mezzo negli anni 1944 -’45. Due gli elementi che di sicuro saranno saltati agli occhi del giovane Scalfari in quel tempo lontano: la povertà diffusa tra la popolazione e la bellezza dei luoghi. La prima sembrava un ingrediente naturale della vita di intere famiglie. La seconda, così varia e struggente, arredava l’intero paesaggio calabrese.

La bellezza che oggi resiste, quella sopravvissuta alla nostra edilizia selvaggia, praticata spesso di frodo, è solo un ricordo di quella d’un tempo. Allontanandosi dagli anni del dopoguerra la Regione si scioglie dalla condizione di drammatico isolamento che aveva segnato per un tempo immemorabile l’esistenza di tanti calabresi tanto da far pensare che la vera isola per molti secoli sia stata la Calabria, non la Sicilia. È a questo punto che irrompe sulla scena un soggetto nuovo: la televisione. La quale ci offre l’uso della lingua italiana, quasi sconosciuta alla maggioranza degli abitanti del luogo e nuovi valori di riferimento basati sulla ricchezza ostentata e sul lusso, sconosciuti agli antenati, che erano persone sobrie e schive, abituate a battersi contro l’ingiustizia delle calamità naturali.

Ma il colpo fatale l’infligge al territorio la criminalità organizzata. Cresciuta in silenzio fino agli anni delle stragi di mafia in Sicilia, che monopolizzarono l’attenzione del governo, oggi la ‘ndrangheta ha sviluppato un potere planetario. Una presenza pervasiva che all’esterno del territorio scoraggia gli investimenti e all’interno si offre come strumento di mediazione sociale, come occasione di lavoro per tanti giovani, ma anche come modello di successo. Il territorio diventa un luogo dove avviene di tutto: omicidi, truffe, trasgressione, anarchia. Una miniera per i media. Tutto quello che appare fuori dalle regole di una ordinata democrazia sembra attecchire da noi. Forte, su tale realtà, risulta il peso della storia – il lungo dominio spagnolo e di seguito, con il breve intermezzo francese, quello borbonico e quello dei Savoia – debole di conseguenza il senso civico, che spinge sempre all’esaltazione del proprio “particulare” a discapito dell’interesse generale.

Queste le condizioni di partenza, di cui quasi mai gli inviati speciali che negli anni passati sono venuti in Calabria hanno tenuto conto. Insistono a raccontare la nostra storia, di per sé sfuggente, in 80 righe a 54 battute, come si diceva in gergo giornalistico prima dell’era del computer. E veniamo ai giorni nostri. Dopo cinquanta anni di attenzione da parte dei governi e dei partiti nazionali, durante i quali molte risorse furono destinate al Sud, anche se poche in conto capitale, molte in spesa corrente, e dopo alcuni innegabili risultati raggiunti nei primi due decenni dalla Cassa del Mezzogiorno, su questo territorio si abbatte, con la crisi dei primi anni ’90, il ciclone-Lega. Un movimento politico che, per quanto rozzo e privo di strumenti culturali, riesce a inoculare nelle vene del paese un diffuso sentimento antimeridionale e antiunitario. Un sentimento che s’insinua in forma silenziosa anche al di fuori del recinto leghista, che scardina, complice la caduta delle ideologie, alcuni concetti-base contenuti nella prima parte della Costituzione, solidarietà, uguaglianza, unità e che riesce a sedurre intellettuali di qualità, a volte lo stesso Scalfari, e per primo Giorgio Bocca. Questi arriva a credere che per rilanciare un paese stremato ci sia bisogno d’irrorare un po’ di sangue “barbaro” nelle sue vene. Faccio qui una digressione personale, non priva di vanità, di cui chiedo scusa ai lettori. Circa una ventina d’anni fa scrissi, su incarico del direttore di un giornale nazionale, la recensione di un libro del famoso giornalista intitolato “Metropolis”, in cui presi in giro le sue debolezze leghiste. Lui mi scrisse un biglietto di due righe che conservo ancora. C’era scritto: «Caro Loiero, la tua recensione è la più bella e vera che abbia mai ricevuto per un mio libro. Saluti Giorgio Bocca». Scrisse proprio così. Comunque bisogna aggiungere, ad onor del vero, che qualche anno dopo Bocca s’avvide dell’errore e cambiò posizione sul Carroccio. Torniamo al discorso principale. La Lega è da ormai circa nove anni al governo del paese e i danni che ha prodotto e, soprattutto, produrrà al Sud, sono ingenti.

Tutta qui la crisi di questo pezzo di territorio? No. Resterebbe da parlare della responsabilità più importante, quella della classe dirigente meridionale. Dei suoi compromessi, delle sue insufficienze, delle sue commistioni con la criminalità, di cui non tutti i giornali del Sud scrivono, ma per onestà bisognerebbe anche parlare della sua solitudine, del suo vivere permanentemente in una gogna mediatica. Ce ne occuperemo una delle prossime settimane.

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