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LE DICHIARAZIONI successive alle stizzite reazioni suscitate dalla  proposta di legge che prevede l’istituzione di un sussidio economico  mensile alle donne che rinuncerebbero ad interrompere la   gravidanza, avanzate a diverso titolo da alcuni consiglieri   regionali, rischiano di essere peggiori della stessa proposta e di   accrescere la distanza siderale esistente tra la sensibilitá e il   senso di responsabilitá delle donne e un ceto politico asfittico e   sterile, non in grado di prevedere l’impatto sociale e politico delle   proprie iniziative.    

Preliminarmente, ciò che colpisce è il maldestro e cinico (come   sempre) tentativo di spostare sul metodo   (parliamone, confrontiamoci, apriamo un dibattito, magari una bella   stagione di convegnistica regionale, perchè no?) una questione di   sostanza che colpisce al cuore il principio di autodeterminazione e la   dignitá delle donne.

Le donne, in quanto soggetto, non possono vedersi opporsi, di fronte al  tema della sessualitá, della procreazione e maternitá una qualsivoglia contrattazione sulle decisioni e le scelte di cui eticamente   dispongono, proprio perchè soggetti in grado di decidere ed   autodeterminarsi.    

Se si svela il finto buonismo di chi invita ad aprire la   discussione, invece di invitare a chiuderla definitivamente come il   buon senso vorrebbe, respingendo al mittente la proposta di legge   perchè sbagliata, invitando i presentatori a ritirarla, appare chiaro   che se si fosse voluto aprire un dibattito sulla maternitá e sullo   stato di attuazione della legge 194 in Basilicata si doveva farlo   prima della presentazione di una simile proposta, coinvolgendo in   primis le donne, le organizzazioni e associazioni che storicamente   hanno difeso e difendono l’affermazione dei diritti delle donne, pur   con diverse convinzioni, senza escludere nessuno, non certo dopo averla   presentata.   Ed è altrettanto evidente che il dibattito auspicato avrebbbe dovuto   riguardare il tema della genitorialitá responsabile, prima ancora che   quello della maternitá. Non le crociate sull’aborto.  

Ogni donna che come me stima le donne e la loro capacitá di giudizio   sa bene che se questo iter fosse stato intrapreso e loro avessero   preso la parola questa proposta non ci sarebbe stata.   Ce ne sarebbe stata un’altra o più di una, di diversa ispirazione   culturale e politica, ma questa no.   Semplicemente perchè la monetizzazione, è questo il nocciolo della   questione, intesa come strumento di sostegno alla maternitá, è una   misura moralmente inaccettabile per tutte le donne poichè offende la   loro dignitá e la stessa libertá di scelta, ai quali orizzonti può   opporsi unicamente la sola coscienza delle donne stesse.  

Giuste o sbagliate che siano le loro decisioni.   Piaccia o non piaccia.   Non esiste un’alternativa a questa condizione se non che altri   decidano al posto delle donne, in questa come in tutte le altre sfere   della loro soggettivitá.     Ma, soprattutto, per concludere su questo punto, se la strada maestra   della politica e dell’ascolto, che poi sono la stessa cosa, fosserro   state intraprese, le istituzioni, i partiti, gli stessi proponenti   sarebbero stati in sintonia con i sentimenti e il senso comune dei   soggetti reali della relazione politica, dei loro bisogni e progetti.   In questo caso le donne e il loro progetto di vita avrebbero vinto   sulla falsa rappresentazione dei loro bisogni “avocata a sè per   procura” da un consiglio regionale che burocraticamente si arroga il   diritto di parlare e decidedere in nome e per conto delle donne.    

È solo la punta di un iceberg; se si comprende emergono ai fini di   questa discussione due aspetti importanti: da una parte la crisi   profonda della politica regionale, lontana dal bisogno radicale di   cambiamento dei cittadini lucani e dalla vita delle persone. 

 Crisi che ha giá avuto modo di esprimersi drammaticamente e   grandemente con l’astensione dal voto della maggioranza dei cittadini   lucani in occasione delle elezioni del Consiglio Regionale. 

L’ altro aspetto attiene alla funzione che noi donne lucane intendiamo   assegnare alla nostra forza di modernizzazione senza riserve con la   quale ogni giorno trasformiamo, migliorandola, la societá lucana, senza   riceverne il riconoscimento e l’aiuto necessari.   In Basilicata più che altrove, come denunciano tutte le ricerche   nazionali.  

A chi decidiamo di delegarla nei luoghi della decisione? E per farne   cosa?   Non è forse finito il tempo di un modello di partecipazione politica   femminile che sconfigge le donne estraniandole dalle istituzioni e le   costringe più che mai a perdere le battaglie per l’affermazione di   quello che veniva definito il ” principio del riequilibrio della   rappresentanza di genere” , mentre studiano, vincono la sfida della   competizione del merito, assistono, fanno i figli che possono e decidono   di avere, mandano avanti con la loro fatica la baracca?   Occorre avere il coraggio riconoscere il fallimento di un modello   partecipativo fatto di commissioni per la paritá e pari   opportunitá, conferenze delle donne, territoriali e non, a tutti i   livelli che finiscono per ripetere compulsivamente giaculatorie   ottocentesche, improduttive se, come il caso di specie ci dimostra, il   risultato è che nessuna donna siede in Consiglio regionale.   Al netto delle energie spese il saldo risulta inveritiero: le donne   perdono sempre mentre vincono da sole,  appaiono deboli e   soccombenti, mentre la loro forza è viva e propulsiva.   Se la metá dei componenti del Consiglio regionale di Basilicata   fossero donne, discuteremmo di questa proposta di legge e dei contenuti   ad essa connessi?   Se la metá dei segretari regionali dei partiti fossero donne avremmo   avuto quelle liste e quei listini?   E i due sessi sarebbero stati rappresentati in quelle misure e in   quell’ordine?   Io credo proprio di no.   Avere il coraggio di cambiare il modo di fare politica delle donne nel   segno dell’innovazione e dell’autonomia per spostare i partiti e le   istituzioni più avanti.   Mettere in gioco noi stesse, senza sconti o vecchi armamentari di   parata:   la battaglia tra la conservazione e il progresso non si può   imbrigliare nelle mozioni, le cordate, i riformismi burocratico-generazionali senza dialogo tra cuore e cervello, scollegati dai   sentimenti popolari e democratici, ma deve esplicitarsi sulle idee, sui   contenuti chiari e sugli orizzonti definiti di un cambiamento   possibile, anche in Basilicata.   Su questo ci si deve confrontare e misurare a viso aperto: si vince o   si perde, si conquistano le medaglie di innovatori e si va   avanti, oppure di conservatori e si resta indietro.  

Altrimenti è la storia di sempre, la selezione delle classi dirigenti   ammantate da categorie mistiche come la fedeltá, il rinnovamento, la   rottamazione, scatole vuote agite come falci per saldare i conti e   perdere ancora una volta il treno dell’innovazione.   Le donne non possono più stare da questa parte.

Nè essere   identificate come quelle che trovano riparo in quelle nicchie. Devono   fare delle scelte.  

Cambiare tutti/e quindi rimane l’unica strada percorribile per   ricominciare a sperare che il tempo delle crociate sulla pelle delle   donne sia definitivamente archiviato, nonostante gli anacronistici   sussulti di queste ore, perchè la politica in Basilicata è in grado   di riprendere la parola e la sfida del cambiamento perchè il   riformismo è possibile.

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