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di LUIGI PANDOLFI
Se non avessi letto il pezzo di Romano Pitaro sulla prefazione di Eugenio Scalfari al libro di Giorgio Bocca Aspra Calabria, probabilmente non avrei sentito tanto il bisogno di intervenire sull’argomento.
Il pregio dell’intervento di Pitaro sta nel ricollegare i temi di una critica stereotipata dei mali e dei ritardi del sud, quelli di Bocca per intenderci, ad una più generale questione che afferisce al rapporto, storico ed attuale, tra nord e sud ed alla funzione degli intellettuali nel nostro paese.
Così mentre la narrazione di Bocca appare inevitabilmente datata, addirittura incoerente con lo stesso tempo storico in cui è stata concepita, il dibattito che su di essa si è aperto dà l’occasione per riprendere il ragionamento su alcune questioni di stringente attualità. Anche grazie agli spunti che Scalfari offre al riguardo.
La prima considerazione che mi viene, a tal proposito, è che sia Bocca che Scalfari nell’affrontare quella che potremmo definire la “specificità meridionale” non tengano conto di quanto la stessa sia anche il portato di vicissitudini storiche che l’hanno, per molti aspetti, determinata. Bene fa Pitaro, in questo senso, a richiamare l’attenzione sul fatto che talune “asprezze” calabresi e meridionali siano il frutto della malaunità, del sacrificio che il processo di unificazione politica della penisola ha imposto alle popolazioni del sud. Dopo centocinquanta anni questo dovrebbe essere considerato un dato acquisito.
E invece no. Si persevera in una diagnosi delle patologie meridionali che non tiene conto del contesto relazionale i cui esse sono maturate.
Inutile dire che tale approccio al “problema sud” è alla radice delle successive perversioni storiografiche del leghismo. Di più: certi orientamenti giornalistici, ma anche storiografici, hanno fatto da substrato culturale ad una interpretazione politica del rapporto nord –sud, tendente ad accreditare quest’ultimo come palla al piede del paese e freno alle potenzialità di sviluppo del nord.
Cos’è che lega l’antropologia di Bocca sulla Calabria ed i pregiudizi leghisti sul sud? Evidentemente l’idea che con l’Unità il paese si sia dovuto far carico dei problemi di arretratezza e di degrado socio-culturale che il sud portava in eredità.
Quando Bossi dice che “il nord non voleva l’unità”, a parte il lato comico di una simile affermazione, allude proprio a ciò: al fatto che l’assimilazione delle Due Sicilie al nuovo Regno sabaudo non sarebbe stato un affare per il nord.
Pazzesco. Come il tentativo di fuoriuscire, dopo un secolo e mezzo, dallo stato unitario con il “bottino” dell’unificazione. Tentativo che, diciamolo francamente, sta incontrando pochissimi ostacoli nel mondo politico. Basti pensare al passivismo, o peggio all’acquiescenza, di tutto il centrosinistra sulla cosiddetta riforma federalista imposta dal Carroccio.
Una riforma che, per come è congegnata, potrebbe avere effetti devastanti sul futuro della Calabria e del mezzogiorno. Essa istituzionalizzerà un rapporto di dipendenza tra sud e nord, attraverso il meccanismo del fondo di perequazione. In sostanza, quando la riforma andrà a regime, le regioni con maggiore capacità fiscale alimenteranno un fondo di riequilibrio che sarà ripartito tra le regioni con minore capacità fiscale. Inutile dire che a quel punto la qualità dei servizi che verranno erogati in una regione come la Calabria dipenderà “formalmente” dal portafoglio delle regioni del nord.
Fino a quando? Nella riforma si dice fino a che non si sarà creata una situazione di parità fra i costi sostenuti ed i livelli essenziali delle prestazioni nelle regioni del nord ed in quelle del sud. Io dico fino a quando il nuovo leghismo non dirà “basta, il nord è stufo di pagare le inefficienze e gli sprechi del sud!” Secondo un canovaccio ormai conosciutissimo.
In questo quadro qual è il valore, la pregnanza della riflessione di Scalfari e della narrazione di Bocca? Sinceramente non riesco a vederli. Tutte le questioni che vi affiorano, vere nella loro essenza, anche nella loro crudezza, non si comprendono fino in fondo se, accanto ad una lettura delle “peculiarità” nostre, non si ragiona sugli effetti pregressi, e su quelli prefigurabili, di una politica “nazionale” che del sud ha fatto prima un terreno di conquista, poi un serbatoi di voti e di clientele, infine la zavorra di cui liberarsi.
Si, forse il cabaret è gestito ancora dalla stessa cricca, ma ci siamo chiesti il perché? E, dopo qualche decennio di cura leghista, indirettamente sostenuta dalla cattiva coscienza di intellettuali un po’ pavidi un po’ conformisti e dall’ignavia del ceto politico locale di stanza a Roma, cosa ne sarà del mezzogiorno? E della Calabria?
A quel punto, forse, si sarà realizzato quello che prefigurava provocatoriamente anni addietro Gianfranco Miglio (non a caso!): il sud alla stregua di un cantone governato, attraverso una propria forza politica, direttamente dalle cosche mafiose.

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