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di ROMANO PITARO
“Caro Scalfari, spiace prendere atto che a suo avviso, e ad avviso dell’esimio Giorgio Bocca, perme non ci sia altro da fare. Ma io sono ancora qua!, come ironizza quell’irregolare di Vasco Rossi. Sto male, e però vedo che il resto del Paese non se la passa meglio di me. Inoltre, non mi do per spacciato, nonostante voi mi definiate vittima di un male oscuro, che, io la vedo così, di oscuro non ha un bel nulla. Perché i nomi di chi mi ha affamato e destrutturato, compresa la grande stampa scritta ed audiovisiva, si conoscono, uno per uno. Stanno da una parte e dall’altra e dico anche, per evitare che mi accusiate di vittimismo, che i colpevoli, tanti, sono anche accanto a me. Così come sono note le ragioni per cui, dall’Unità ad oggi, sono sotto scacco. Ma anche qui, fatemi dire: nessuna oscurità. Piuttosto, mi piacerebbe che anche voi, anziché salvarvi l’anima, degna senz’altro di rispetto, su un affare che ha visto da sempre il Sud sacrificato per la gloria del Nord, vi interrogaste con meno distrazione. Se la battaglia è persa, e se, dopo un ventennio “i vari Macrì e Piromalli sono sempre lì e il cabaret è gestito da una cricca”, due grandi intellettuali italiani come voi due – uno dei quali ha fondato giornali, fatto politica, scritto libri entusiasmanti, condizionato governi ed espresso opinioni in cui tuttora ogni domenica si specchiano milioni di italiani – dove hanno toppato?” Se esistesse un Mezzogiorno, se non fossero, invero, diversi i Mezzogiorni, come si deduce da qualsiasi inchiesta sociale ed economica un tantino seria, e come dovrebbe ben sapere la classe dirigente italiana qualora decidesse di aggredire per davvero alcuni mali oscuri del Sud (sottosviluppo e criminalità organizzata) anziché elencarli ad ogni piè sospinto; ebbene, se il Mezzogiorno fosse uno, io credo che risponderebbe in questi termini a Scalfari. Che firma l’introduzione di “Aspra Calabria”, un’inchiesta di Giorgio Bocca condotta all’inizio dei ’90 e ora pubblicata da Rubbettino, e che ieri il nostro Quotidiano ha pubblicato integralmente in anteprima. Il lavoro di Bocca è noto anche alle pietre. Viene in Calabria e parla di Vietnam, di capre e champagne, di gente animalesca che sequestra ricchi e meno ricchi, di una società civile ostile alla modernità, chiusa e complice di criminali e malaffare, mentre sullo sfondo pullulano politici corrotti e funzionari pubblici inadeguati. Dipinge, nell’Italia sulla cui groppa stanno per saltare Berlusconi e Bossi, un “continente” a sé abitato da diavoli. Votato geneticamente al crimine e perduto per la democrazia. Un’analisi che salva la coscienza dell’altra parte ricca del Paese, che pure, grazie a quei diavoli, a quei banditi e a quei poveracci, costretti a milioni a cercare nei decenni un’occasione di lavoro in ogni angolo di mondo, galleggia nell’opulenza e nel decoro. Salvo scoprire, oggi, dopo vent’anni, che quell’altra Italia, operosa e intraprendente, infine non è diventata la Repubblica di Platone o la Città del Sole, anzi, come la definisce la Repubblica di Scalfari, si è trasformata in una “gigantesca palude”. In mano ad un partito, la Lega Nord, che non ha niente da invidiare, per sprezzo dei principi fondamentali della Costituzione, al Front Nazional di Le Pen, al Vlaams Blok, il partito nazionalista fiammingo, al Pro-Koln, l’ultradestra tedesca, o al movimento slavista russo di Vladimir Zhirinowsky. Se così è, dunque, è ovvio che qualcosa non ha funzionato, e che alcune interpretazioni consolidate sui ritardi del Sud sono da gettare nella pattumiera. Che si è dinanzi ad un modello di Paese diseguale fin dall’origine ormai entrato clamorosamente in crisi. Ed a cui certa stampa in mano alle grandi imprese del Nord, ha involontariamente (?) reso ampi servigi nel descrivere i tanti Sud, alcuni luridi e impresentabili altri dinamici e attraenti, come un unico Sud la cui subalternità andava vivificata continuamente. Un unico Sud zavorra del Nord, prima da utilizzare e oggi da sganciare. Un’idea che ha fatto da sfondo, soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale, nel dibattito pubblico e che la Lega ha avuto buon gioco ad enfatizzare. A quell’inferno del Sud, specie l’informazione, avrebbe dovuto dare una mano, per far crescere, come scrive Calvino ne “Le città invisibili” quello che inferno non è ed all’inferno resiste. Spiega eloquentemente quant’è accaduto – ed è da qui che dovrebbe iniziare a farsi un ragionamento sgombro di riserve mentali e pregiudizi sul Mezzogiorno – Giovanni Russo, in risposta a chi sostiene che la corruzione e la criminalità siano una malattia meridionale: “La pratica dell’assistenzialismo corruttore e del sussidio umiliante si è manifestata con il regalo degli incentivi a volte di centinaia di miliardi alle imprese pubbliche e private del Nord che hanno seminato il Sud di “cadaveri” eccellenti, costati centinaia di miliardi di lire e rivenduti per poche centinaia di milioni, e di numerose opere pubbliche perpetue che hanno arricchito e continuano ad arricchire costruttori disonesti e mafiosi, provocando enormi guasti al territorio, lo sviluppo caotico delle città e la devastazione selvaggia delle coste”. E circa l’informazione: “I mass media invece di denunciare il sistema corrotto dei finanziamenti pubblici nel Sud e di illustrare le profonde trasformazioni della società meridionale che, con la dissoluzione del mondo contadino, si era ormai definitivamente allontanata dall’immagine di “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi, hanno contribuito ad identificare la questione meridionale con la questione criminale”. Insomma il Sud può andar fiero, specie nella dimenticanza in cui è lasciato di questi tempi, dell’attenzione che gli presta un fine e colto giornalista come Scalfari, ma quell’introduzione ad un’inchiesta sulla Calabria che reca un segno ben preciso, francamente è troppo poco.

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