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ORMAI sono come il prezzemolo, si trovano in ogni minestra.
Niente in questo periodo riempie la bocca di politici e amministratori – ma anche di opinion leader, media e social network – come le startup innovative.
Sembra che l’unico sviluppo possibile dipende dalla loro spinta.
E così enti, istituzioni (nazionali e locali) e qualche privato, tra premi, incentivi ma anche troppi tweet, post e selfie, hanno investito molto sulla nascita di nuove imprese innovative. Addirittura è bastato metterne in fila poche in uno stesso territorio per evocare la Silicon Valley. Sono nate così le diverse “Valley” nostrane, la “Sile”, la “Sempion ” e le altre.
Eppure i ritorni delle startup, almeno in termini di resa e sviluppo economico, non sembrano ancora proporzionati alle uscite.
In Italia, infatti, secondo Infocamere, al 12 gennaio 2015 sono attive 3156 startup innovative. Di queste la gran parte sviluppa software, in poche hanno un fatturato superiore ai 100.000 euro mentre il numero di addetti impegnato è decisamente esiguo.
Anche negli Stati Uniti, pur se con sfaccettature diverse, il tema della resa delle imprese innovative è ormai di attualità (Robert Litan). Mentre in Italia a porre la questione è stato Il Corriere Innovazione: “Non possiamo permetterci che le startup siano (solo) una moda”.
Perché le startup incidono e creano valore diffuso se fatturano, se creano profitti e posti di lavoro quindi quando hanno un modello di business replicabile e scalabile.
Una tesi la traccia il professor Fabrizio Dughiero: «Il nostro tessuto industriale, diverso da quello americano e tedesco, ha bisogno di incontrare il mondo delle startup in modo diverso, meno finanziario e più pragmatico». In pratica, le startup devono diventare il collante che lega e unisce le idee e i centri di innovazione (Università, centri di ricerca ecc.) con chi già possiede la visione e il polso del mercato cioè l’impresa.
Perché con il supporto – in termini di investimenti e competenze – di un’azienda affermata (gli americani le chiamano Pillar Company) le nuove iniziative riuscono a superare più agevolmente i due principali scogli allo slancio iniziale: disegnare un modello di business vincente e accorciare il lasso di tempo che intercorre tra lo sviluppo del prodotto e il suo atterraggio nel mercato. In cambio, l’azienda Pillar, incorpora così innovazione per migliorare o diversificare il suo core business.
Oggi invece la coltivazione delle startup è demandata essenzialmente ad incubatori pubblici – il cui ritorno degli investimenti andrebbe monitorato – o privati.
E la Basilicata? Lo sappiamo: i lucani non si fanno mancare niente. Così ai primi di aprile 2014 riescono a convincere addirittura il quotidiano La Repubblica a lanciare con l’evento “Rnext”, svolto a Matera, la “sorprendente” regione delle startup: la “Basilicon Valley”. Uno slogan perfetto che diventa subito totem da portare in processione per sagre e contrade.
Eppure poco più di un mese prima, a febbraio 2014, nonostante il lavoro e gli investimenti di corazzate pubbliche regionali come Sviluppo Basilicata e Basilicata Innovazione, in Lucania sono attive (fonte MISE/Infocamere) appena 9 startup innovative (tutte nella provincia di Potenza). Peggio fa solo la Valle d’Aosta con 5.
Però a inizio 2015 le startup di Basilicata diventano 19 (17 a Potenza e 2 a Matera). Sono quasi tutte imprese di servizi (due operano nell’industria/artigianato), solo due quelle altamente tecnologiche in ambito energetico, mentre dal punto di vista degli addetti sono tutte di classe A cioè con meno di 4. In compenso però peggio di noi, oltre la Valle d’Aosta con 10, fa anche il Molise con 14.
Insomma, ancora una volta la Basilicata si dimostra allergica ai numeri e facile da abbagliare con le luci riflesse della comunicazione.
Ma i numeri sono testardi e la forma, senza la sostanza dei fatti, porta ovunque tranne che ai risultati.

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