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Rapina di Delianuova: il caso – hanno detto i mass media – è chiuso. Ma a riaprirlo, in verità, ci ha pensato giustamente il procuratore della Repubblica di Palmi, Giuseppe Creazzo, quando a conclusione della conferenza stampa e prima che si consegnasse alla giustizia il terzo giovane, ha affermato: «L’efferatezza dell’avvenimento impone una riflessione sull’importanza di fare prevenzione sociale, in particolare tra i giovani della Piana di Gioia Tauro, per offrire loro opportunità di impegno e valori che riescano ad allontanarli dalle dinamiche della criminalità organizzata». E  ascoltando il Procuratore mi son venute in mente altre parole, pronunciate da Nando Dalla Chiesa: «Vorremmo uno Stato che  sa piangere. Vorremmo uno Stato a cui queste storie dicono qualcosa, passano dentro il sangue. Vorremmo uno Stato che le faccia proprie, queste storie, per  dare risposte».

Nando ha pronunciato queste parole a Genova, nell’ambito della Giornata della Memoria di Libera, dopo aver ascoltato alcune  testimonianze di familiari di vittime di mafia. Ma, mi chiedo, i protagonisti di questa raccapricciante vicenda di Delianuova, non sono forse proprio loro le vere vittime di mafia? Vittime di quella cultura mafiosa che si identifica spesso con la cultura capitalistica e consumistica nell’affermare che quel che conta nella vita è il denaro, la ricchezza da raggiungere ad  ogni costo, anche a costo della vita, propria e degli altri?

E allora lo Stato, dove per  “Stato” non dobbiamo pensare solo agli organi istituzionali ad ogni livello, ma  a tutti “noi”, deve veramente piangere lacrime, ma non di coccodrillo, bensì di rabbia per come vanno le cose e di coraggio per cambiarle.

Conosco bene uno dei tre ragazzi protagonisti. E’ “passato” anche lui dalla mia Parrocchia. Una famiglia difficile alle spalle, una famiglia “travagliata”, “precaria” in tutti i sensi… alla ricerca di una stabilità economica e sociale, che non è mai arrivata. Una infanzia difficile la sua e quella di suo fratello (un terzo fratellino arriverà più tardi ed è ancora oggi bambino). Un ragazzo timido, che già da bambino portava sulle spalle il peso del disagio e della fragilità. Un disagio ed una fragilità ed un incertezza esistenziale che ha cercato di abbattere rincorrendo il mito del denaro ad ogni costo.

Quanti di questi ragazzi circolano di giorno e di notte per le nostre strade e molti di loro con le pistole in tasca, mentre noi adulti facciamo finta di niente!

Li chiamiamo “giovani a rischio”, giovani “malati”. Ma sono loro i malati o invece siamo noi adulti, che ci siamo dimenticati il nostro ruolo di  educatori? La rapina di Delianuova non è forse il paradigma del fallimento del nostro modello educativo in un territorio alla deriva, abbandonato da tutti e soprattutto dai suoi abitanti, che hanno rinunciato al ruolo di protagonisti nel nome della rassegnazione? E allora forse è giunto il  momento di fare autocritica e di assumerci tutti le nostre responsabilità. “Vorremmo uno Stato che le faccia proprie, queste storie, per  dare risposte”!

Gli organi periferici e centrali dello Stato incomincino a riappropriarsi del loro compito di essere presidio sociale sul territorio. Non basta la repressione… né l’obiettivo delle Istituzioni può essere  ancora il semplice “governo” delle povertà e delle marginalità. Oggi più che mai bisogna mirare all’eliminazione delle povertà e alla tutela dei diritti, soprattutto dei diritti delle nuove generazioni. I ragazzi del nostro territorio non possono continuare ad essere  considerati  figli di un Dio minore rispetto ai loro coetanei di altre realtà del Paese. C’è bisogno di politiche sociali  a favore dei nostri giovani.

Un terreno sul quale si misurerà la capacità delle istituzioni democratiche di contrastare la espansione del fenomeno mafioso è proprio quello relativo ai processi di cooptazione e di arruolamento delle nuove leve che quotidianamente avviene nei diversi contesti del nostro territorio. Un territorio che si rivela oltre che inquinato dalla presenza delle organizzazioni criminali e dalla loro cultura dell’illegalità, appunto anche privo di risorse e strutture.

In moltissimi comuni mancano servizi sociali ed assistenziali efficienti anche quelli che dovrebbero rispondere alle esigenze primarie. In particolare sono quasi del tutto assenti centri di aggregazione per minori e giovani e per loro il punto di incontro privilegiato è la strada o sale da gioco, spesso gestite da persone in odore di mafia.

Il rischio di attrazione tra minori e criminalità organizzata risulta elevato, non solo per le prospettive di carattere economico che essa può aprire, ma soprattutto perché permette agli adolescenti di avere dei valori, dei modelli di riferimento, di acquisire una identità e di individuarsi come persona. Una criminalità che assicura quindi attenzione e protezione, la possibilità di ottenere un “ritorno” in termini di rispetto, prestigio, di valorizzazione. 

Nel deserto di altre opportunità educative non ci si può meravigliare che l’inserimento in attività criminali rappresenti per molti ragazzi di determinate cittadine e quartieri l’unica attività praticabile e soddisfacente, l’unico itinerario per divenire adulto e  trovare una collocazione sociale.   

La risposta a questa pedagogia criminale è quella indicata da don Pino Puglisi a Palermo e da don Italo Calabrò a Reggio Calabria: la formazione delle coscienze, l’azione di accompagnamento e di orientamento dei ragazzi e dei giovani verso percorsi di legalità, di  responsabilità, di cittadinanza attiva.

C’è allora bisogno di un nuovo  patto  educativo. C’è bisogno di un progetto educativo che affronti alla radice, partendo dalla formazione delle persone, i problemi cruciali che  rendono possibile la fioritura della criminalità organizzata.

L’educazione è il primo ed il più prezioso investimento di una comunità aperta al futuro. Un investimento che trova nella famiglia, nella scuola, nelle comunità parrocchiali, nei luoghi frequentati dai giovani  i suoi veicoli principali. Anche come Chiesa dobbiamo dare molta più forza e convinzione  ai nostri percorsi  educativi. Dobbiamo dedicare molto più tempo, più risorse  e più spazi non solo ai ragazzi ma alle famiglie ed in particolar modo ai genitori, che oggi più che mai hanno bisogno di essere  aiutati a vivere il loro ruolo educativo.

Ma noi adulti non dobbiamo dimenticare una cosa importante: i giovani non cercano adulti perfetti, ma persone  credibili e  appassionate, persone che non dicano loro cosa fare, ma facciano insieme a loro. Ai giovani  dobbiamo indicare esempi efficaci; a loro dobbiamo additare uomini e donne rappresentanti di una classe dirigente che non si ripiega su se stessa e sui propri interessi, lasciando la gente al proprio destino ma condivide davvero i problemi di tutti. 

Solo così riusciremo a rendere più forte il volto dei nostri giovani, più alta la loro fronte, più pieno di passione il  loro sforzo di dare a questa terra il profumo del cambiamento. 

Solo così forse eviteremo di  trascorrere nella mestizia  un nuovo giorno di Pasqua. 

*Vicario generale della diocesi di Oppido-Palmi e referente di Libera nella Piana di Gioia Tauro

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