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7 minuti per la lettura

di DOMENICO TALIA
Una calda domenica mattina in pieno agosto. Con le persiane quasi chiuse a schermare la luce del sole si può dormire fino a tardi. Sto cercando di farlo. A metà mattina il suono delle campane rompe il silenzio e l’atmosfera placida. Mi rifiuto di aprire gli occhi, li tengo serrati come ante che non devono far arrivare la luce al cervello assopito. Mi chiedo che urgenza c’era di dire messa così presto. Sento rumori che arrivano dalla cucina. Sarà mia madre. Dal letto, ad alta voce, le chiedo: «Perché suonano così a lungo? Cosa celebrano oggi? Il dio sole?».
Mi risponde che c’è un matrimonio. «Le campane lo annunciano mezz’ora prima dell’arrivo in chiesa della sposa».
Ho capito: non si può dormire. Mi alzo diretto in cucina a bere un bicchiere di acqua fresca. Chiedo dettagli a mia madre: «Ma chi ha tanta voglia di sposarsi in un rovente mattino d’agosto?».
Il tono della risposta è perentorio, quasi fuori luogo: «Stamattina si sposa una ragazza della tua età. Anzi una ragazza che tu conosci bene. Eravate a scuola nella stessa classe».
Non sono ancora del tutto sveglio, ma quelle parole mi scuotono e mi rendono curioso: «Chi è? Come si chiama?»
La sto distraendo mentre armeggia con le uova, le servono per preparare le cotolette. Uno comincia a rotolare sul tavolo della cucina, quasi le cade a terra. Mentre mi risponde, riesce a fermarlo prima che finisca sul pavimento.
«Ma come? Non sai che si sposa Irene? È stata a scuola con te fino alla terza media».
Caspita! Irene andava in sposa in quella calda mattina agostana. Era tanto tempo che non la incontravo. Da quando avevamo finito la scuola media e lei si era fidanzata, non c’eravamo più visti e adesso ero stato svegliato dal suono delle campane del suo matrimonio.
Irene a scuola era la prima della classe. Non solo studiava tanto, era anche molto intelligente. Era stata obbligata al fidanzamento a quattordici anni compiuti. Suo padre le aveva trovato un fidanzato di rispetto e appena preso il diploma di scuola media, l’aveva promessa in sposa a un uomo molto più grande di lei. Lui andava verso i trent’anni e noi ragazzini di quattordici lo avevamo notato passare spesso davanti alla nostra scuola negli ultimi mesi prima degli esami. Lo vedevamo arrivare in macchina e fermarsi per un po’, ma non capivamo cosa ci facesse da quelle parti.
Lo capimmo alla fine dell’estate, quando Irene mandò a tutti gli amici un breve sms: «Mi sono fidanzata. Ciao». Pensavamo a uno scherzo o a una cotta per uno di noi.
Una nostra amica, sua vicina di casa, ci chiarì la situazione: suo padre era un uomo di “fibbia” e aveva deciso che Irene non avrebbe fatto il liceo come le sue compagne di scuola. Si fidanzava con un altro uomo d’onore e il matrimonio tra lei e quell’uomo avrebbe rafforzato il potere di entrambi in tutta la zona. Il padre l’aveva “offerta” per aumentare il suo potere nel Crimine. Merce umana con alto valore di scambio per i suoi affari. Si trattava di onore, serviva a rendere più forte la famiglia.
La nostra amica ci aveva raccontato dei pianti di Irene, della sua disperazione per non poter proseguire gli studi, per non poter più frequentare i suoi coetanei. Ma il padre non volle ascoltare. Quel matrimonio era molto importante.
Quando sua moglie cercò di parlargli per farlo ragionare, si mise a gridare: «Tu e tua figlia siete due stupide, non capite che io lo faccio per il suo e per il nostro bene. Dopo questo matrimonio, lei avrà tutto quello che desidera. A noi tutti porteranno rispetto».
Irene non ci spedì più nessun sms. Forse il padre le aveva tolto il cellulare. Ogni sera lo andava a trovare il fidanzato che con lei scambiava qualche parola e passava la maggior parte del tempo con suo padre. Discutevano dei loro affari. Spesso Irene dopo un po’ chiedeva permesso e andava a dormire. Quando usciva era sempre con sua madre e a volte insieme a loro due c’era anche il fidanzato.
Quell’autunno noi iniziammo il liceo, trovammo nuovi compagni di scuola e nuovi amici. Così ci scordammo di Irene. Le nostre strade si separarono e non seppi quasi più nulla di lei.

Mia madre era di spalle, stava pelando le patate e mi raccontava: «Il fidanzato avrebbe voluto sposarla subito, ma lei aveva preferito aspettare, forse sperava che qualcosa potesse accadere. Adesso lei ha compiuto diciotto anni e si sposano».
Mentre finiva il suo lavoro, mia madre proseguì il racconto con altri dettagli, ma io non stavo più ad ascoltarla. Pensavo: «Era ancora una ragazza Irene, ma adesso doveva diventare donna per vivere vicino ad un uomo d’onore già trentenne. Le sue amiche si sarebbero diplomate, sarebbero andate all’università, molte stavano vivendo amori leggeri da adolescenti. La sua storia era diversa. La sua vita era cambiata per sempre».
Mangiai un po’ di frutta, mi alzai e andai in bagno a lavarmi. Con calma mi preparai per andare a mare. Uscii e mi accorsi che tutte le strade intorno alla chiesa erano occupate da auto parcheggiate in ogni dove. Erano sicuramente degli invitati.
Camminando verso la spiaggia, passai davanti al bar. Gli amici che erano dentro mi chiamarono per bere un caffè insieme. Entrai e rimasi con loro qualche minuto dopo il caffè. Giusto il tempo per vedere gli sposi uscire sul sagrato della chiesa.
Lui aveva la stessa faccia che avevo visto davanti a scuola. Irene era cresciuta. Era bella e solare. L’abito da sposa la faceva sembrare più matura, ma il suo volto era quello di una ragazza, una sposa ragazza. Sorrideva e si riparava il volto dal riso che qualche invitato le lanciava addosso. Insieme al sorriso mi sembrava di vedere sul suo viso un alone di tristezza. Ma forse era solo la mia impressione; un mio preconcetto.
Gli sposi si misero in macchina e la lunghissima teoria delle auto degli invitati partì al seguito con un fracasso di clacson e grida. Non rimasi lì ad attendere che fossero partite tutte. Salutai gli amici e uscii dal bar diretto verso il mare. Il caldo sarebbe stato più sopportabile stando in acqua.

Tornai a casa nel pomeriggio, quando la siesta era finita e la città riprendeva a muoversi nuovamente. Stavano rientrando i primi invitati dal pranzo delle nozze. Avevano facce arrossate e sudate. I maschi, sotto gilè sbottonati, mostravano pance gonfie oltre il solito e le donne avevano pettinature cotonate che ormai avevano perso la foggia originale. Qualcuno si era fermato al bar e raccontava di più di 1500 invitati: «Una sala non era bastata. Ci siamo divisi nei due saloni del villaggio vacanze. C’era gente da tutta la provincia; dallo Ionio e dal Tirreno. Qualche invitato era venuto anche dalla Sicilia».
Erano brevi resoconti da bar, ma non serviva collegarsi al casellario giudiziale per capire la somma dei precedenti penali e civili riuniti quel giorno nelle due sale del ristorante. I più giovani, abito blu o nero antracite, accoppiavano collane d’oro con crocefisso ad anelli con teste di leone o brillantini non proprio minuscoli. Quelli incravattati non potevano mostrare le collane e così gli anelli al mignolo si associavano a cravatte scure con il nodo allentato sul pomo di Adamo.
I racconti nel bar non sorpresero nessuno, servivano solo a farci passare il tempo. Il discorso finì sulla generosità dei compari che facevano a gara a chi era più di mano larga degli altri: «Chissà che regali di valore e quante sorprese hanno ricevuto gli sposi!»
Le sorprese e i doni per gli sposi furono tanti, ma la sorpresa più grossa agli sposi la fecero i carabinieri. Appena Irene e suo marito tagliarono la torta e gli invitati erano impegnati a brindare, qualcuno portò la notizia avvicinandosi all’orecchio del padre della sposa: «Fuori è pieno di carabinieri». Lui sputò nel tovagliolo che teneva tra pancia e tavolo, ma fece finta di niente. Chiese di non far girare la notizia per non disturbare la festa. Disse: «Tanto gli sbirri stanno controllando tutte le uscite. Inutile fare cazzate».
A festa finita, quando gli invitati salutarono gli sposi e lasciarono le buste e i regali, uscendo dal ristorante, trovarono i carabinieri ad attenderli.
I militari invitarono tutti i maschi a fermarsi all’uscita del villaggio per essere identificati. Le donne potevano andare. Ma quelle non andarono da nessuna parte perché a guidare erano gli uomini. Alla fine gli unici a non tornare a casa furono due latitanti che – per caso – si trovarono a passare da quel ristorante e, per loro sfortuna, furono portati in carcere, seppure a pancia piena.
Quando Irene seppe di quell’inaspettato finale della cerimonia delle sue nozze, non fu contenta. Sua madre si preoccupò di minimizzare la cosa e di rasserenare i suoi pensieri. Il marito la tranquillizzò: «Quelli a noi non potranno farci mai nulla».
Lei, sposa ragazza intelligente, ebbe la sensazione che quello era solo l’inizio delle sue inquietudini.

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