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Senza girarci intorno. Sono uno dei tanti cittadini che avevano intravisto nelle inchieste di Luigi De Magistris una ritrovata fiducia nella legge “uguale per tutti”, soprattutto in regioni come la Basilicata e la Calabria, in cui i comitati di affari condizionano da sempre la società, minandone i capisaldi di democrazia. Sappiamo come è andata a finire. A De Magistris, fino ad allora ritenuto un ottimo magistrato, sono state sottratte le inchieste una ad una, Poseidone, Why Not, Toghe Lucane, quest’ultima conclusa senza la possibilità di scrivere le richieste di rinvio a giudizio. Non sapremo mai che cosa sarebbe accaduto se a De Magistris fosse stato consentito di continuare a svolgere il suo lavoro.

Oggi tutti si affannano, confortati dall’archiviazione dell’inchiesta Toghe Lucane, a ricordare il primato della politica contrapposta all’ansia forcaiola e giustizialista. Nessuno nega che in Italia ci sia una corruzione diffusa (i dati, forniti di recente dalla Corte dei Conti, parlano di circa 60 mld di euro all’anno), di gran lunga peggiore di quella che aveva preceduto la stagione di Mani Pulite. Non si nega neppure l’oppressione clientelare sulla dignità delle persone. Il problema è che il potere tollera analisi socio-economiche, purché non si chieda conto a persone in carne ed ossa della loro responsabilità, fosse anche solo quella di garantire la necessaria fiducia nelle Istituzioni o quella di ordine etico e morale che compete a chi ricopre importanti incarichi pubblici.

Ed allora, ormai lontani dalle aule dei tribunali e dalle ordinanze che allontanano inequivocabilmente ogni ipotesi di responsabilità penale da tutti gli indagati, io chiedo conto. Chiedo conto alla dottoressa Felicia Genovese degli atti elementari che non ha compiuto, attraverso i quali si sarebbero evitati quasi 18 anni di sofferenze alla famiglia di Elisa Claps.

Chiedo conto al dottor Tufano di non aver assunto alcuna iniziativa istituzionale nei confronti della dottoressa Genovese, pm della direzione distrettuale antimafia, per verificarne la compatibilità di sede e di funzione, neanche quando divennero di dominio pubblico fatti inquietanti, a prescindere dalla loro rilevanza penale: suo marito, Michele Cannizzaro, si trovava a casa delle vittime il giorno prima dell’omicidio, di chiaro stampo mafioso, dei coniugi Gianfredi, sul quale la stessa Genovese aveva indagato per sei mesi senza astenersi; il dott. Cannizzaro era iscritto alla massoneria ed aveva avuto ‘contatti telefonici’ con esponenti della ‘ndrangheta; in passato persone legate alla criminalità organizzata calabrese erano state viste dai carabinieri a casa sua, in Calabria, durante un ‘lauto pasto’; tutti fatti sui quali l’Autorità Giudiziaria di Salerno ha disposto l’archiviazione.

Chiedo conto all’avvocato Buccico di quale deontologia professionale lo abbia portato, nel corso dell’inchiesta sulla misteriosa morte dei “fidanzati di Policoro”, dopo essere stato in un primo momento il legale della famiglia di Luca Orioli, ad assumere la difesa di coloro che gli Orioli avevano accusato di negligenza in quelle stesse indagini. Chiedo conto all’avvocato Labriola del trattamento riservato ai genitori di Luca Orioli, facendo pagar loro anche il tempo delle domande disperate di un papà e di una mamma a cui era stato strappato un figlio.

Chiedo conto a quei personaggi che si incontrano nell’ombra come in un film, insieme, ci raccontano, per delle battute di caccia. Me li immagino, tronfi e rossicci, al sole e al vento del sud, quella meravigliosa costa ionica su cui progettavano la loro piccola Venezia. Loro, padroni della terra, dei fiumi, del mare e delle persone.

Io so, ma non ho le prove, diceva Pasolini, con il coraggio e l’intelligenza di un uomo libero. Ed oggi che le 509 pagine di Toghe Lucane sono solo, per alcuni, atti di una storia da dimenticare, posso dire anch’io: io so, ma non ho le prove.

Io so da dove arriva quel puzzo di palude, dentro il quale ogni grido svanisce in gorgoglio indistinto. Io so chi sono i volti noti, conosco i gesti e le parole dei loro incontri in cui si programmano carriere e affari. Ma non bastano le 509 pagine dell’atto di chiusura indagini a raccontare quel che già sapevamo. E cioè che vivere in città senza una piazza o una scuola o un parco che sia degno di tal nome, non è una congiura di un destino avverso, ma il piegarsi di sindaci, assessori e funzionari pubblici agli interessi di pochi. Nessuna inchiesta ormai spiegherà la genesi e gli affari di una città come Potenza, non la sola di questa Italia, che si è plasmata nel servilismo e nella violenza di cento abusi, tutti legali e ingiusti.

Ecco, vorrei parlare dell’ingiustizia, così forse capiranno anche quelli che sanno molto della Giustizia. Vorrei parlare dell’ingiustizia di morire senza un perché, di sparire per sempre e di lasciare le persone care a morire ogni giorno, perché in questo cavolo di paese se osi chiedere conto, macché, se osi far vedere le tue lacrime disturbi la quiete sociale. Ho avuto l’onore, e dico davvero l’onore, il 18 e il 19 marzo, di camminare fianco a fianco con i familiari delle vittime delle mafie, di conoscere la bellezza di questa Italia che sa stare insieme e trasformare la memoria in impegno. Ho visto le lacrime di chi dopo tanti anni, forse per la prima volta si è sentito accolto e riconosciuto nella sua dignità. Ed ho capito che nessuno può permettersi, nel chiuso delle stanze di un tribunale o di una questura o nelle riunioni di partito o nei circoli massoni, di trattare le richieste di giustizia come questi cavalieri e dame dell’apocalisse.

Perché l’apocalisse è quando il potere si riunisce e complotta, condiziona, protegge e punisce chi non è allineato e lo fa nell’ombra. Io le conosco quelle trame oscure di giornalai da strada e cantastorie. Le conosco perché le rivelano gli applausi ed il consenso di quei sodali compiaciuti: “serve a stabilizzare”. A stabilizzare cosa? La bruttezza, l’arbitrio, l’ingiustizia, la violenza, la morte?

Lo so, non faccio nomi, o troppo pochi, o troppi. Dovrei stare attento a ricercare le parole giuste, il virgolettato che rimandi a qualche voce autorevole. Così da non poter essere contraddetto. Ma io so e non ho le prove.

Non ho le prove delle mie certezze, non ho le prove neanche dei miei giudizi, ma so che quei silenzi sono il peso insopportabile di una società che per liberarsi deve saper accogliere il dolore, devo saperlo custodire come un tesoro, farne memoria e fondamento dell’impegno. Che si metta in ginocchio il potere arrogante di fronte a chi è morto di silenzi e di dignità negata. Oggi c’è un’Italia bella, c’è una Basilicata colorata e forte che non si nutre di speranze effimere, ma sta insieme alle vittime per ritrovare, insieme a loro, grazie a loro, senso e sostanza. Gli altri si godano pure questo momento di gloria. Io, ai banchetti e ai lauti pasti, preferisco il sapore delle lacrime e la pienezza dell’indignazione.

Rosario Gigliotti
Referente provinciale di Libera – Potenza

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