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Avevo chiesto al collega Giuseppe Baldessarro un promemoria sulla vicenda tragica di Giuseppina Pesce e di Maria Concetta Cacciola prima di scrivere questo articolo, ma credo che la sua scheda nella sua scheletricità racconti benissimo e in modo inoppugnabile quanto è accaduto. Per questo ve la ripropongo così come me l’ha trasmessa in forma di appunti chiedendogli scusa per l’uso improprio che ne faccio e omettendo soltanto i nomi di qualche altro giornale e giornalista, non già per reticenza quanto soprattutto perché non meritano neanche di essere citati. Eccola. «Giuseppina Pesce viene arrestata il 28 aprile 2010 per associazione mafiosa nell’ambito dell’inchiesta “All Inside” contro il clan dei Pesce di Rosarno. Il 14 ottobre 2010 Giuseppina Pesce si pente e inizia a collaborare con la Dda di Reggio Calabria. Il 24 novembre 2010 scatta il blitz determinato dalle dichiarazioni di Giuseppina. Il giorno prima si erano chiuse le indagini di “All Inside 1” e “All Inside 2”, si annunciava così un unico maxiprocesso con quasi cento imputati. Il 16 aprile 2011, grazie alle dichiarazioni di Giuseppina, vengono arrestate sua madre Angela Ferraro e la sorella Marina. Lo stesso giorno l’avvocato Giuseppe Madia, nuovo difensore della Pesce, annuncia che la sua assistita ha smesso di collaborare e che sta ritrattando. Il 28 aprile l’avvocato Madia rende nota una lettera nella quale Giuseppina afferma di essere stata costretta dai magistrati a dire cose non vere. I magistrati, secondo quanto riporta (…), l’avrebbero velatamente minacciata di non farle vedere i figli e le impedivano di curarsi in carcere. Il 30 aprile il Quotidiano smentisce la versione e pubblica i pareri positivi della Procura alle visite dei figli e il trasferimento al carcere di Opera dove c’è una struttura sanitaria che consente le cure. Il 1° maggio (…) lancia una campagna contro “i giornalisti accovacciati dietro la porta dei pm” e spara a zero contro i magistrati con pezzi ripetuti di (…). L’11 giugno Giuseppina viene nuovamente arrestata per evasione dagli arresti domiciliari. Il 21 luglio esce la notizia che la Pesce torna a collaborare. Il 21 settembre escono i verbali di Giuseppina, che ammette di essere stata costretta dai propri familiari a dire che i magistrati l’avevano costretta a pentirsi. Afferma anche che la lettera fatta avere dall’avvocato Madia a (…) era falsa, e che la pubblicazione era stata concordata con (…). Lo stesso giorno arrivano le condanne (fino a 20 anni di carcere) degli imputati processati con l’abbreviato di “All Inside”. Le dichiarazioni della Pesce sono tutte riscontrate. Maria Concetta Cacciola decide di pentirsi a fine aprile scorso, seguendo le orme della cugina Giuseppina Pesce. I primi di agosto lascia la località protetta e torna a Rosarno dove aveva lasciato i figli. Il 20 agosto si suicida ingerendo l’acido muriatico. Pochi giorni dopo la morte i familiari danno alla stampa la lettera e la registrazione con la quale la Cacciola accusa i magistrati di averla costretta a parlare. (…) lancia una campagna contro la magistratura (ci sono una quindicina di articoli sull’argomento). Oggi si scopre che anche la Cacciola era stata costretta a ritrattare e che la lettera e la registrazione erano costruite ad arte per essere date in pasto alla stampa». Qui finisce la scheda del collega Baldessarro che lascia poco spazio ai commenti. Una sola notazione: qui non è in gioco una partita di calcio (e la cosca Pesce controllava anche questo mondo) tra due squadre mentre sugli spalti – come ha spiegato il procuratore Giuseppe Pignatone nella sua “lezione” all’Unical – ci sono gli spettatori che eventualmente tifano per l’una o per l’altra. La partita drammatica si stava svolgendo in quel mondo schifoso nel quale hanno avuto la sfortuna di nascere Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciola e, ricordiamola, Lea Garofalo. Se bisognava stare dalla parte di qualcuno non bisognava avere dubbi: bisognava stare dalla parte dei più deboli. E i più deboli erano quelle donne che, a costo di un travaglio tremendo, alla fine avevano deciso di rompere con le loro famiglie e di scegliere la strada della legalità e della giustizia pagando per questo due volte: trovando la morte o minacciate la vita loro e dei loro figli, e infilate con cinica perfidia in un vortice più grande della loro fragilità. Si è invocato il garantismo, ma qui bisognava garantire le persone meno garantite, quelle che con il loro coraggio avevano imboccato un cammino di redenzione anche a costo della fine più atroce. In questi giorni si discute della ‘ndrangheta e della sua penetrazione nella società e nelle istituzioni calabresi: esagera chi dice – e scrive – che la ‘ndrangheta non esiste ed esagera chi la vede dappertutto rischiando così di non vederla dove c’è. Le inchieste – quelle che vanno a processo e a sentenze e che si spera possano esserci anche nel prossimo futuro – ci riconducono alla realtà, ed a questa bisogna attenersi. Soprattutto occorre uno sforzo collettivo dei calabresi onesti (quanti sono? la maggioranza? una minoranza?) che devono capire che la loro azione quotidiana (in primo luogo il rispetto delle regole), insieme con l’azione dello Stato, può cambiare le cose. Devono farlo per sé ma soprattutto per i giovani che hanno diritto ad un futuro diverso in questa loro meravigliosa terra. Perché il destino di ragazzi e delle ragazze deve essere così tragicamente legato all’ambiente e al luogo di nascita? Che futuro diverso dal diventare ‘ndranghetista può avere uno che, nato in una famiglia di ‘ndrangheta e in un ambiente tollerante o complice, succhia prepotenza e illegalità come un latte materno e non riesce neanche a vedere un mondo diverso fatto di convivenza civile, di tolleranza, di rispetto, di felicità? Nascono in ambienti tristi, vivono infelici anche perché la morte dispensata senza pietà è un boomerang sempre in movimento, ed hanno un futuro amarissimo. Ecco perché dobbiamo inchinarci davanti a Giuseppina, Maria Concetta e Lea. Nonostante tutto sono riuscite a capire che vivevano nel male e hanno trovato il coraggio di dire: basta, non deve andare così, noi e i nostri figli dobbiamo vivere in pace e non in una guerra perenne. Hanno pagato un prezzo altissimo, ma lo pagheranno ancora di più se saranno dimenticate e il loro esempio non diventerà un patrimonio collettivo che rigenera in bene e felicità le azioni della gente di questa terra. Calabresi, guai a voltarsi dall’altra parte e a digerire anche queste storie come un normale tran tran quotidiano. Facciamole diventare l’immagine di una Calabria combattiva e positiva, di quella bella Calabria che tutti vorremmo e che purtroppo non c’è se non nel panorama. Intanto, tra un mese è l’8 marzo, una festa che rischia di essere tale solo per vendere un po’ di mimose e scambiarsi qualche regalo o cena, ma che poi di tanto in tanto recupera la sua carica vitale. Ebbene, quest’anno ogni mimosa sia accompagnata dai volti di Giuseppina, Maria Concetta e Lea. Alla ‘ndrangheta militare e a quella in doppiopetto (“che sta in mezzo a noi, purtroppo”), facciamo sapere da che parte stiamo. E questa sia solo una tappa di un cammino collettivo, fatto di piccoli e grandi gesti quotidiani, che guarisca la Calabria dal male che la devasta e la riscatti agli occhi dei suoi ragazzi e del mondo. Matteo Cosenza

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