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La dottrina politica di Giulio Antonio Brancalasso di Tursi, la concezione giuridico-politica di Vincenzo Bruno di Melfi o la teoria della nobiltà di Paolo Silvio di Melfi, gli scritti di Tommaso Stigliani di Matera sia letterari che politici, la teoria della monarchia limitata di Andrea Molfesio di Ripacandida, sono alcuni dei temi e delle personalità trattati dal giurista e filosofo Francisco Elias de Tejada, nell’opera Napoli Spagnola, L’età d’argento nelle Spagne 1598-1621(edizione Controccorrente, Napoli 2014).

Un buon motivo per segnalare, anche in Basilicata, la traduzione italiana di quest’opera. Frutto di una decennale ricerca il volume fa seguito agli altri tre già pubblicati a partire dal 1999: La Tappa Aragonese (1442-1503), Le decadi imperiali (1503-1554), Le Spagne auree (1554-1598) usciti in Spagna tra il 1958 ed il 1964 per le edizioni Montejurra. Se agli studiosi lucani questi autori non sono certo ignoti, non così al vasto pubblico che spesso non immagina per dirla con Tommaso Pedio che <<accanto ai numerosi cronisti, ai letterati e ai giuristi che, uomini illustri nel giudizio degli autori di storie municipali, continuano ad essere ignorati dalla cultura meridionale, non mancano nella Basilicata del ‘600 eruditi e studiosi che hanno portato valido contributo alla cultura>>. Tema a cui il Pedio dedicò una sintetica ed ampia panoramica in una Comunicazione dal titolo “Storici ed eruditi lucani dal XVI al XVIII secolo” al 59 Congresso della Dante Alighieri (1968). Ma se uno dei motivi di interesse dell’opera del de Tejada consiste appunto nelle notizie e negli spunti che offre, tra gli altri, su questi autori lucani, un ragione ulteriore e più significativa per recensire questo lavoro è la linea interpretativa che l’Autore propone.

 Napoli spagnola fornisce infatti una lettura del periodo del vicereame da parte di chi si sente partecipe e interprete del pensiero e della tradizione ispanica, attraversando biografie ed opere di una molteplicità di autori, anche di diverso peso e valore, con l’intento – certo non dissimulato – di mostrare quanto ingeneroso e infondato sia il giudizio radicalmente negativo formulato tra l’Ottocento e il Novecento su questo periodo della storia meridionale. Si può davvero parlare di una dominazione o di una colonizzazione spagnola nei termini che siamo soliti dare a queste espressioni? Come fu vissuta dalle popolazioni l’esperienza del vicereame? Quali sentimenti, aspirazioni, problemi si evidenziano nella letteratura, nella saggistica, nella filosofia del tempo? Napoli e l’identità napoletana ne uscì arricchita o impoverita? Quali furono i valori e quale la funzione storica della monarchia federale delle Spagne, di cui Napoli era parte allo stesso modo della Catalogna o di altri popoli e territori? Non è forse in odio a questi valori e al ruolo storico della Spagna che è sorta poi la leggenda nera del malgoverno spagnolo? In Italia già a metà degli anni ’70 uno studioso di cultura liberale, come Giuseppe Galasso, aveva sollevato più di un dubbio sulla storiografia pregiudizialmente antispagnola ricordando la <<Tesi crociana sulla fondamentale positività del domino spagnolo nell’Italia meridionale e lo sforzo di valutare le condizioni del Regno in rapporto a quelle che erano le generali condizioni degli altri paesi europei del tempo>>.

Di fatto questa rivisitazione e rivalutazione operata da Benedetto Croce e, per altri versi, da Gioacchino Volpe, non ha avuto grandi conseguenze sulla vulgata ufficiale, e ancora oggi, gran parte dei docenti di ogni ordine e grado ripetono, in modo acritico, i giudizi radicalmente negativi, a forte connotazione ideologica, espressi da Vincenzo Cuoco a Francesco De Sanctis sino a Gabriele Pepe, Raffaele Ajello, Rosario Villari, per citarne alcuni. Aurelio Musi, dieci anni orsono, motivava tale pregiudizio radicale con un «atteggiamento mentale» sviluppatosi «nell’Ottocento romantico soprattutto in quei Paesi in cui il trinomio patria-nazione-libertà ebbe bisogno, più che altrove, di costruire miti di fondazione dei nuovi Stati unitari e indipendenti>>. Dunque al mito antispagnolo si contrappone quest’opera certo a sua volta non priva di forzature per dirla con Gabriele Fergola, ma ricca di argomenti e documenti in grado di restituire un diversa immagine della Napoli spagnola. L’Autore illustra come gli intellettuali e gli studiosi del tempo fossero espressione di una consapevolezza storica in cui Napoli (e i territori italiani che da essa dipendevano), costituisce un regno autonomo, dotato di istituzioni proprie organicamente ben articolate, legate al potere centrale comune, tramite il vicerè, e dunque orgogliosi di appartenere alla confederazione delle Spagne, di esser parte integrante dell’ecumene ispanico-cattolico.

Una visione, peraltro,che aveva ispirato personalità come Bernardo Martirano e Luigi Tansillo, illustre poeta venosino (cui sono dedicate significative pagine del II Tomo dell’opera che presentiamo) a propugnare l’egemonia napoletana in Italia e prefigurare una possibile unificazione politica della penisola, seppure sempre nell’ambito della monarchia federale spagnola.

Al periodo spagnolo de Tejada rivendica la libertà dalla minaccia musulmana, la preservazione dell’identità cattolica dalle lacerazioni prodotte in altre parti d’Europa dal luteranesimo, il senso della missionarietà che comportava il massimo zelo nel combattere i germi dell’eresia, le azioni intraprese “contra barones opprimentes subditos” con cui si proibiva loro di imporre tributi straordinari o impedire matrimoni tra i propri vassalli, la visione universalistica e non nazionalista, rispettando culture e idiomi, diversamente da quanto suggeriva nei suoi scritti Tommaso Campanella ( a cui riserva una serrata critica) che avrebbe voluto vedere imposta la lingua castigliana e un <<totalitarismo teocratico>, lo spirito antimachiavellico che animava il pensiero politico del tempo: tutti motivi che di converso spiegano l’irriducibile avversione illuministica ed il relativo giudizio di condanna senza appello. All’uomo d’oggi fa un certo effetto riscontrare nella pubblicistica dell’epoca la condanna della tirannia e la conseguente apologia dei limiti del potere del sovrano e le argomentazioni a sostegno di forme di monarchia temperata, in cui il principe non governa secondo il proprio arbitrio ma con il consiglio dei migliori e nel rispetto delle norme a cui giura osservanza all’atto di assumere la corona (i cosiddetti fueros ovvero i costumi generali del regno, secondo la formula di Andrea Molfesio da Ripacandida).

Un modello che se poteva degnerare in paternalismo certo delegittimava ogni deriva assolutistica. Un tema questo che rinvia alle acute riflessioni di Bertrand de Jouvenel (in Del Potere. Stora naturale delle sua crescita) sulle nefaste conseguenze di quella concezione opposta della sovranità, che si affermerà in Europa, basata su teorie che scioglieranno da ogni vincolo e limite sia etico che giuridico l’esercizio del potere.

Né lasciano indifferenti i tanti trattati che fioriscono in quell’epoca dedicati alle virtù morali che si addicono ad un sovrano (giustizia, prudenza, generosità, pazienza, coraggio) in aperta polemica con il pensiero machiavellico o le dissertazioni che trattano di una idea di nobiltà giustificata dalle opere e dalle virtù e non dai privilegi, tema su cui tra gli altri si sofferma anche il nostro Paolo Silvio (che è poi alla base del concetto spagnolo di hidalgo, una idea di cavalleria fondata sui doveri).

Risultano invece fortemente carenti e superficiali le poche analisi economiche e sociali di cui trattano gli scrittori proposti. Analisi che oscillano tra i disegni utopici di un Campanella e scontate affermazioni sulla centralità dell’agricoltura, su alcune problematiche connesse con la feudalità e la denuncia dei mali derivanti dagli eccessi della classe forense. Tra i limiti dell’opera, che ha per fine quella di tratteggiare il clima culturale di un’epoca, risalta la non considerazione del lascito artistico di quel periodo: da Caravaggio a Guido Reni, da Spagnoletto ad Artemisia Gentileschi, che insieme ad altri accorsero ad abbellire chiese, cappelle e palazzi, come peraltro evidenzia il curatore del volume Gianandrea de Antonellis. All’epoca di Filippo III Napoli raggiunse l’apogeo del piacere di vivere. Con oltre trecentomila abitanti è la città più popolosa dell’intera monarchia, scrive de Tejada e tale è l’immagine che ci hanno lasciato della Napoli di quel periodo il grande drammaturgo Felix Lope de Vega e Miguel de Cervantes Saavedra, l’autore del Don Chisciotte. L’opera di Francisco Elìas de Tejada è in definitiva un grande affresco di storia delle idee che pone il lettore di fronte ad una vibrante apologia della “napoletanità spagnola”. Questo approccio inevitabilmente è destinato a suscitare nel lettore, privo di pregiudizi e aperto al confronto, curiosità e interesse.

Al contempo solleciterà sentimenti molto contrastanti dal momento che l’autore mai cela le sue preferenze e le sue avversioni. Il IV volume di Napoli Spagnola ha il pregio di essere particolarmente leggibile e scorrevole, intrattenendo il lettore per oltre 600pagine. Per la ricchezza di profili biografici, aneddoti, citazioni letterarie e poetiche e rinvii biblografici, per il taglio per nulla accomodante, talvolta urticante, con cui de Tejada declina giudizi e riflessioni è rivolto non solo ai cultori di storia patria ma a quanti animati da curiosità intendono immergersi e penetrare nel modo di pensare di un’epoca così pregnante per la storia meridionale e non solo.

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