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CROTONE – Il volo liberatorio, lo  chiama. Il volo liberatorio è quello che sua figlia, Lucia O., ha compiuto dal balcone della sua casa a Cosenza una brutta  mattina di questo aprile per morire il giorno dopo nell’ospedale. Era bellissima, nonostante le ferite continua a ripetere la madre di Lucia nel salotto buono, colori bianchi, semplice ed essenziale, tante foto della ragazza sparse un po’ ovunque, in questa villetta alla periferia Nord di Crotone. Il padre di Lucia è seduto anche lui sul divano. Ma è un uomo di poche parole ed è come se qualcosa gli si fosse spezzato dentro. Lucia gli aveva mandato questo sms il 19 marzo, festa del papà: «Ho deciso di non farti gli auguri, ma di farli a mia figlia. Le auguro di avere un padre anche solo per un decimo di quello che ho avuto io e di avere il cuore sempre pieno del suo viso e delle sue parole come è stato per me. Ti voglio bene…».

Sono gente forte e semplice il padre e la madre di Lucia. Ieri sono stati cercati dai giornali e dalle tv di tutta Italia per via di quella lettera, tosta e senza lacrime, senza disperazione ma fiera, arrabbiata, che la signora, una insegnante di scuola elementare, ha inviato al nostro giornale. E dove denunciava che quel gesto tragico, finale – il volo liberatorio, come continua a chiamarlo – non si poteva etichettarlo come conseguenza della depressione. No. Lucia era una dei tanti giovani che aveva studiato sodo, che si era laureata brillantemente e aspettava di fare il suo lavoro. Le avevano insegnato, quei due, che il merito avrebbe pagato prima o poi. Ed invece non è stato così. Come accade a tanti, a troppi. In un paese dove bisogna avere un cognome importante per arraffare un posto, scriveva la signora. Lucia non voleva lasciare la Calabria, tant’è che aveva accettato di fare un lavoro diverso, sottopagato, lei che si era laureata in Ingegneria gestionale, pure lei era andata ad ingrossare l’esercito dei diplomati e laureati dei call center. «Quando è nevicato tanto a Cosenza, ho tenuto acceso il cellulare fino a notte tarda per assicurarmi che avesse fatto ritorno a casa dal lavoro dove finiva tardissimo e non avesse avuto incidenti», racconta la madre. Non voleva andare via dalla Calabria, Lucia. E’ una colpa da pagare a così caro prezzo?, si chiedeva nella lettera la mamma. Allora se è così, giovani, andate via e abbandonate questa terra, noi non vi vogliamo… scriveva come con un urlo tremendo la donna.

E’ gente forte, questa. E’ gente che non cerca di finire sui giornali. Pudore delle proprie cose. E denuncia del dramma della disoccupazione giovanile. Non è facile parlare di Lucia, non tanto perché è difficile parlare con dei genitori della morte della propria figlia, giovane bella mamma. Mamma di una bambina di due anni. Perché Lucia amava tanto la vita da fare una figlia, sposarsi a Cosenza con il suo uomo e andarsi a prendere la laurea ad Arcavacata. 110. Senza la lode, precisa il padre. E’ difficile intrufolarsi nelle loro cose, strappare una foto di questa ventisettenne che non abbiamo smesso di guardare per tutto l’incontro, seduti su quel divano bianco con alle spalle i momenti di felicità di Lucia, abbracciata al padre, con l’altra sorella Francesca, con la madre.

«Non voglio parlare di mia figlia, non voglio che questa mia denuncia finisca per travolgermi e non voglio mettermi in mostra», ripete la signora in maniera quasi ossessiva. «Ho scritto quella lettera al Quotidiano per ridare dignità a mia figlia, l’ho scritta di getto. E questo è un motivo. Ma l’altro è più forte ancora: me l’ha dettata lo sdegno, perché siamo ancora capaci di indignarci, sì lo siamo, lo siamo di fronte a questo schifo, alla mancanza di lavoro, alle speranze che si affievoliscono, alla disperazione di tanti giovani e di tante famiglie. Uno sdegno che mi porto dentro da quando Lucia si è laureata nel marzo 2011 in ingegneria gestionale. Ingegneria gestionale. Leggevo nel pomeriggio su qualche sito che riportava la mia lettera il commento di qualcuno che diceva più o meno che quella è una laurea che si può prendere in qualche altra parte di questo paese, in Lombardia ad esempio, perché è assurdo che una giovane calabrese pretenda di trovare un posto dove non esistono industrie. Mi pare che la Costituzione reciti che tutti i cittadini devono avere pari opportunità. Allora chiedo a chi ha scritto questa cosa: Lucia non aveva diritto di scegliere?».

Lucia aveva avuto un solo colloquio di lavoro, a Reggio Calabria, per la casa farmaceutica Angelini. Era per uno stage. Ma poi non ha saputo più nulla. Lei aveva mandato curriculum a tutti. Ed una volta aveva in tasca anche un biglietto aereo per Milano. Ma su quell’aereo non volle salire. La chiamava la Nestlè per il solito stage. «Mi offrono quattro spiccioli| disse, non ne vale la pena».

Non è che non volesse andare via dalla Calabria, Lucia, nonostante il forte legame con i genitori che erano disposti ad aiutarla per vederla “sistemata” . La ragazza era stata educata al culto della famiglia. Ma più forte ancora era il senso della dignità, ripete spesso la mamma. «Lei non voleva essere un peso per noi. A settembre aveva fatto domande per l’insegnamento di matematica e informatica nelle scuole. Domande che dovevano essere indirizzate ad istituti tra Cosenza e Crotone. Ed era molto combattuta, perché la sua famiglia, il marito e la piccola, stavano a Cosenza. Alla fine disse: no, no, punto su Cosenza». Non abbandonava la Calabria per necessità, per amore di sua figlia, non era una mammona, non era una bambocciona, Lucia.

Ma se aveva tanto amore per questa piccola, per sua figlia, perché l’ha fatto? Una domanda cattiva, da mordersi la lingua di fronte a quei due che non hanno più lacrime da piangere ma sono marcati per sempre dalla vita. «Lei quella bambina non la voleva lasciare, ne sono certa, ne abbiamo parlato, il marito lavora a Cosenza. La solitudine di mia figlia non è stata familiare ma sociale. Quando veniva qui a Crotone diceva metterei le ruote a questa casa e vi porterei tutti a Cosenza. Vede, la miscela esplosiva che ha portato Lucia a questo gesto estremo è composta da due elementi che se messi insieme diventano micidiali, deflagrano, uccidono: la sua intelligenza, io continuo a dire che quel volo non ha scalfito la sua intelligenza, una dote che le consentiva di vedere un pochino più in là del vivere quotidiano, e la sua sensibilità. La sensibilità può apparire una sofferenza superficiale, ma quando si unisce all’altro elemento, l’intelligenza, compone un mix devastante appunto. Il difetto di mia figlia, come quello di tanti giovani, calabresi e non calabresi, è che aveva un cognome anonimo. L’altro è stato quello di non avere genitori che andassero in giro con il cappello in mano, ad elemosinare posti, favori. Quelli che non hanno nulla da dire diranno che faccio del qualunquismo. Invece credo di fare solo una lettura della realtà perché ai posti che contano, a determinati posti, ci arrivano determinate persone. Io e mio marito non volevano che Lucia occupasse qualche postazione di potere. Io insegno da molti anni e pochi giorni fa ho detto ad una mamma  che se non diamo ai figli la chiave di lettura della nostra società, come si può pensare che la Calabria possa uscire dal baratro in cui l’hanno fatta sprofondare? Ho insegnato alle mie figlie, ed ai miei alunni questo: la libertà di ogni singola persona e il rispetto delle regole. Solo questo. E le dico di più: speravo che questa mia lettera al suo giornale avesse questa eco. A scuola mi hanno detto che sui siti dei maggiori quotidiani nazionali se ne parlava anche perché sono uscite quelle cifre sui suicidi ai tempi della crisi. Ma le confesso che non vorrei che questo mio gesto mi travolgesse. Non voglio diventare famosa, non voglio vedere telecamere per mettermi in mostra, non voglio tradire lei, mia figlia, che era una donna discreta, semplice, una donna del Sud. Una che la mattina badava a casa e poi nel pomeriggio e fino a notte andava al call center. Una come tante. Una ragazza normale».

Eccola sorridente in quella foto, Lucia, i capelli corti e rossi, un giubettino nero di pelle con qualche piuma attorno al collo, un borsetta e tra le mani quella tesi a cui teneva tanto. A 22 anni aveva completato gli studi triennali all’Università poi aveva fatto la specializzazione: nel 2005 la laurea. In quei fogli rilegati con una copertina azzurra, la tesi, dedicata alla figlia, alla fine, nei ringraziamenti alla famiglia d’origine e alla sua nuova famiglia, al marito e alla bimba “che illuminano le mie giornate e le riempiono di piacevoli impegni che mi fanno sperare in un domani migliore, un domani sereno, che possa esistere se stiamo insieme nonostante spesso io abbia l’impressione che questo mondo stia andando a rotoli» . Questo è il testamento di mia figlia dice la mamma di Lucia. 

«Questa figlia bella come il sole, brava, intelligente, studiosa ma non secchiona. I suoi amici di liceo e poi quelli di università dicevano che studiava molto ma si divertiva anche molto». 

A una sua amica che si era laureata con lei non  hanno rinnovato il contratto all’Università. Ed anche lei è finita in un call center. Un altro suo amico è dovuto andare a Milano.  La mamma di Lucia ha un lungo elenco: «I nostri ragazzi intelligenti che cosa devono fare? Lasciare la Calabria, la Cenerentola delle Cenerentole, ai vecchi fino a quando non sprofonda? Sono stata felice questa mattina quando ho letto sul Quotidiano le parole che il professor Filice, presidente del corso di studi di mia figlia all’Università della Calabria, ha dedicato a lei. Così non ne parlo bene solo io che sono la mamma». Una mamma che chiamava Lucia nell’intervallo delle ore di lezione, l’aveva fatto anche il giorno prima del tragico volo. «Mi era sembrata stanca, ma nulla più» dice ora e si ferma.

«Ho parlato di Lucia non per mettere in piazza un fatto privato. Ho voluto denunciare soltanto la solitudine di questi ragazzi. Di lei continuo a dire che era bella come il sole e che quel volo liberatorio non ha scalfito la sua intelligenza».

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