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«EPPUR SI MUOVE», potrebbe dire qualcuno a seguito dell’avvio del progetto di illuminazione del ponte Musmeci. Benché la citazione sia inappropriata, a me piace pensare che tutto nella vita possa muoversi in modo dinamico verso stadi di miglioramento continuo.

Ho letto alcuni articoli e ho ascoltato l’architetto Cappelli (responsabile del progetto, ndr) parlare del progetto di illuminazione scenografica del ponte Musmeci. L’intero discorso mi ha lasciato “in sospeso”.

Più volte si precisa che questo progetto è un inizio, un voler mettere in luce la condizione di un’opera d’arte che, come lo stesso Cappelli sottolinea, «versa complessivamente in uno stato di degrado e di abbandono». Mi sarebbe piaciuto ascoltare un’annunciazione diversa, avrei voluto apprendere di un progetto capace di inglobare anche quest’ultima problematica.

Mi occupo di project management, ossia di gestione di progetti, per la multinazionale che secondo la rivista economica Forbes è al quarto posto nel mondo per fatturato. Da molti anni lavoro su progetti energetici di larga scala, e su altri dedicati a fonti energetiche alternative. Non si tratta mai di sforzi singoli, scollegati, isolati. Gli interventi di cui mi occupo rientrano sempre in una programmazione generale che cerca di applicare quotidianamente una strategia aziendale.

Cercando di applicare un simile approccio al progetto di illuminazione del Musmeci, avrei voluto capire da cittadino e da tecnico “collega” (oltre che da potentino), in quale programmazione e in quale strategia si inserisce l’illuminazione scenografica del ponte.

Non credo si tratti della strategia del «avevamo solo questi soldi e perciò li usiamo per illuminarlo» a muovere progetto. Né credo che ancorarsi allo slogan «illuminiamo il ponte per farlo conoscere ai cittadini lucani» possa considerarsi una strategia vincente.

Una strategia partirebbe da uno scopo. In questo caso, l’unico scopo ammissibile è quello di salvare il ponte, valorizzandolo come opera d’arte a livello mondiale.

Si potrebbe pensare a un percorso in linea con quanto fatto per altre opere d’arte in contesti non tanto lontani dal nostro. Penso, per esempio, all’adozione dell’opera. Non un adozione emotiva da parte “dei lucani”, bensì nel senso tecnico del termine, da parte di quei soggetti che hanno la capacità economica di investire nel salvataggio della struttura.

Senza dover per forza scomodare le royalty, vorrei sollecitare i tecnici lucani – e ce ne sono di bravissimi – a pensare quanto utile potrebbe essere il coinvolgimento delle banche attraverso le fondazioni. Questi soggetti oggi investono nel recupero di opere d’arte per uno strategico ritorno di immagine. Con buoni risultati. 

Pensiamo a quanti imprenditori, magari nel settore edile, potrebbero intercettare nella ristrutturazione del ponte un guadagno di immagine. Perché non avviare, per esempio, un project financing che coinvolga non solo enti erogatori tradizionali come la Comunità Europea, ma anche le fondazioni?

In un simile percorso l’illuminazione del ponte diventerebbe non la partenza, ma l’approdo di un progetto ampio.

Un esempio di successo è rappresentato dal Comune di Civita di Bagnoregio, dove c’è un antico borgo per anni indicato come “il paese che muore”.

La nascita di un project financing con le maggiori università italiane, la partecipazione di registi che hanno contribuito con la propria arte e l’impegno di alcuni banchieri hanno permesso al Comune di ottenere sostanziosi investimenti utili all’opera di restauro. Oggi il borgo è una grande attrazione del centro Italia, esempio di come un’esigenza possa trasformarsi in un’opportunità. Il risultato è un fiore all’occhiello del patrimonio culturale italiano.

Per quanto riguarda il Musmeci, sono migliaia le idee che si potrebbero mettere in campo, sicuramente facendo leva sull’importanza dell’opera che ha un riconosciuto respiro mondiale. Purché non ci si accontenti di illuminarlo.

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