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OGNI mattina, da quel giorno in cui la vita di Claudio si era fermata, sua madre andava sulla sua tomba. Da vent’anni,  in modo ormai meccanico, si alzava, andava in bagno a lavarsi, si vestiva, indossava le scarpe ed usciva di casa. Sia che facesse freddo o caldo, sia che piovesse o che ci fosse il sole. Senza ombrello, senza preoccuparsi del clima. 
Usciva con i vestiti neri di sempre, che nemmeno i lavaggi ripetuti nel tempo erano riusciti a scolorire. Indossava quello scialle che portava sempre con lei, anche se era metà agosto. Si recava a piedi al cimitero ed arrivava quando il cancello era ancora chiuso. Aspettava il custode, che ogni mattina continuava a stupirsi di vederla sempre lì, come se non se ne fosse mai andata, con i vestiti che sembravano sempre gli stessi e la stessa espressione, come se fosse stata la sua vita ad essersi fermata quel ventotto di marzo. 
Poi entrava ed andava alla fontana, prendeva acqua per innaffiare i fiori e lavare il marmo. Un rito che conservava al suo interno gesti comprensibili solo ad  altre madri che, come lei, avevano conosciuto quel dolore, che avevano ospitato nel ventre la vita e poi avevano finito per sentirsi addosso solo il vuoto della morte. 
Poi tornava a casa e trovava Giulio, il figlio minore, seduto al tavolo a fare colazione, entrava e senza guardarlo neppure si avvicinava per dargli un bacio sulla tempia, un solo attimo di ritrovata serenità materna per poi ripiombare  nel silenzio con cui trascorreva le sue giornate. E Giulio la guardava provando a ricordare com’era prima, lottava contro il tempo che sbiadiva quei pochi ricordi che la sua mente era riuscito a conservare. Pensava a sua madre, al nero ineluttabile con cui aveva colorato la sua vita e quella di chi vi stava intorno, alla felicità mancata di una vita passata nella ricerca di chi non c’è più. Incapace di guardare alla, per lei inaccettabile, innocente felicità di chi ancora c’è. Ferma, in un bilico che non conosce perdono, che non conosce pace.

OGNI mattina, da quel giorno in cui la vita di Claudio si era fermata, sua madre andava sulla sua tomba. Da vent’anni,  in modo ormai meccanico, si alzava, andava in bagno a lavarsi, si vestiva, indossava le scarpe ed usciva di casa. Sia che facesse freddo o caldo, sia che piovesse o che ci fosse il sole. Senza ombrello, senza preoccuparsi del clima. Usciva con i vestiti neri di sempre, che nemmeno i lavaggi ripetuti nel tempo erano riusciti a scolorire. Indossava quello scialle che portava sempre con lei, anche se era metà agosto. Si recava a piedi al cimitero ed arrivava quando il cancello era ancora chiuso. Aspettava il custode, che ogni mattina continuava a stupirsi di vederla sempre lì, come se non se ne fosse mai andata, con i vestiti che sembravano sempre gli stessi e la stessa espressione, come se fosse stata la sua vita ad essersi fermata quel ventotto di marzo. 

Poi entrava ed andava alla fontana, prendeva acqua per innaffiare i fiori e lavare il marmo. Un rito che conservava al suo interno gesti comprensibili solo ad  altre madri che, come lei, avevano conosciuto quel dolore, che avevano ospitato nel ventre la vita e poi avevano finito per sentirsi addosso solo il vuoto della morte. Poi tornava a casa e trovava Giulio, il figlio minore, seduto al tavolo a fare colazione, entrava e senza guardarlo neppure si avvicinava per dargli un bacio sulla tempia, un solo attimo di ritrovata serenità materna per poi ripiombare  nel silenzio con cui trascorreva le sue giornate. E Giulio la guardava provando a ricordare com’era prima, lottava contro il tempo che sbiadiva quei pochi ricordi che la sua mente era riuscito a conservare. 

Pensava a sua madre, al nero ineluttabile con cui aveva colorato la sua vita e quella di chi vi stava intorno, alla felicità mancata di una vita passata nella ricerca di chi non c’è più. Incapace di guardare alla, per lei inaccettabile, innocente felicità di chi ancora c’è. Ferma, in un bilico che non conosce perdono, che non conosce pace.

(Pubblicato sull’edizione cartacea del Quotidiano il 15 novembre)

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