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POTENZA – Per essere liberi e indipendenti bisogna essere, prima di tutto, liberi dal bisogno. «Io ho avuto la possibilità di fare davvero il giornalista fino a quando ho fatto il bancario», dice infatti Nino Grasso. Ora portavoce del presidente Pittella, Grasso ha portato avanti due carriere parallele: dalle 7 del mattino alle 17 lavorava in banca. Poi si chiudeva in una redazione fino a sera tarda, prima alla Gazzetta del Mezzogiorno, poi alla Nuova Basilicata. Insieme bancario e giornalista. E ne va fiero, come va fiero del fatto di non essere mai diventato professionista, pur avendone avuto la possibilità: «Sono nell’Ordine dei pubblicisti dal febbraio del 1976. Avevo 20 anni».
Quel lavoro in banca gli ha garantito indipendenza, gli ha garantito di poter scrivere, criticare e proporre. Perchè, avendo la dignità di uno stipendio alle spalle, si è sentito libero di scrivere davvero quello che pensava.
«Io ho iniziato giovanissimo racconta – e all’epoca gli unici professionisti erano in Rai. Il giornalismo del resto era una passione, ai soldi non ci si pensava. E tutti i giornalisti di allora, che collaboravano con testate nazionali che qui avevano pagine locali (Il Tempo, Il Mattino, la Gazzetta del Mezzogiorno e Il Roma) , avevano un altro lavoro».
Ed è forse in questo passaggio, dal mestiere come passione al mestiere che diventa professione, che si inserisce forse la crisi del giornalismo attuale.

Cosa è cambiato in questa professione? Cosa accadeva quando tu hai iniziato?

«Io ho sempre avuto questa tara e ho iniziato molto presto, alla Ragioneria con quel preside illuminato che era Rocco Carrano. Creammo a scuola “La voce dello studente”, che stampavamo proprio grazie al preside da Zafarone. E intanto facevo il ragazzo di bottega alla Gazzetta del Mezzogiorno. Ecco questa per esempio è una cosa che è cambiata: quando noi iniziavamo eravamo dei fantasmi. La firma te la dovevi guadagnare, c’era una gerarchia della firma. Oggi arrivi in una redazione e il giorno dopo trovi la tua firma. Allora passavano due anni. E in questo modo si faceva una selezione. Io venivo messo a rifare comunicati stampa: Pino Anzalone (allora direttore della Gazzetta) un comunicato me lo faceva riscrivere anche tre volte. Ed era una palestra. Oggi vedo sui giornali comunicati presi e buttati lì, esattamente come vengono mandati».

C’erano anche meno comunicati…

«Assolutamente. E c’erano anche meno pagine da riempire. E questo garantiva che il giornalista sviluppasse una buona capacità di sintesi. Avevamo una pagina a nostra disposizione, sarebbe stato impossibile pensare di inserire, come oggi, un intero comunicato».

Nonostante la “tara del giornalismo”, tu scegli una strada alternaltiva. Perchè?

«Partecipo, consapevole di non avere alcuna possibilità essendo iscritto al Pci, a un concorso indetto dalla Cassa di risparmio. C’erano 200 posti a disposizione, poi portati a 400. La prova scritta era d’italiano. Io la faccio e, poco dopo, parto militare. Ed è mentre facevo il servizio di leva che mi chiamano per dirmi che avevo superato lo scritto. Gli orali furono una formalità e mi ritrovai impiegato in banca. Certo poi mi fecero pagare il mio essere comunista e iscritto alla Cgil: per quattro anni mi mandarono nella filiale di San Mauro Forte. Ma anche da lì la collaborazione con la Gazzetta non si interruppe, cosa che invece successe con “Mezzogiorno interno”, pubblicazione della Cgil che stampavamo con Pietro Simonetti con una nostra mini rotativa».

La tua collaborazione veniva regolarmente retribuita?

«Sì, ma certo se non avessi avuto lo stipendio da bancario non avrei potuto vivere. Io ho fatto il giornalista, del resto, finchè ho fatto il bancario. Avevo le spalle coperte».

E non hai mai pensato di fare il giornalista come primo lavoro?

«Tra il fare l’impiegato della carta stampata e quello di banca ho scelto questa seconda strada. Io il giornalista l’ho sempre fatto per passione».

Ti sei sempre occupato di politica. Quale il rapporto allora e quale oggi con la politica?

«Il rapporto è cambiato molto e, secondo me, la colpa è anche dei tempi. Noi eravamo portati a riflettere un po’ di più su quello che scrivevamo, non dovevamo raccontare tutto praticamente in tempo reale. Erano diversi i tempi di produzione: le notizie fresche erano quelle dettate direttamente allo stenografo che, per forza di cose, dovevano essere brevi. L’articolo invece lo spedivi con il cosiddetto fuori sacco. Lo spedivi per posta, arrivava a Bari e, nel frattempo, quel pezzo lo avevi letto e riletto tu, lo aveva guardato il caporedattore di Potenza e poi anche quello di Bari. Quindi eravamo portati a riflettere di più. La velocità, le nuove tecnologie, hanno fatto perdere qualità. E comunque questo è un lavoro che devi fare sempre con correttezza, sapendo che la verità non sta mai da una parte».

Più facile a dirsi che a farsi: specie quando il giornalista si occupa di politica l’accusa di essere di parte è inevitabile…

«Non se lo fai con correttezza. Io sono stato iscritto al Pci fino al 1990, ero il giornalista comunista alla Gazzetta del Mezzogiorno. Eppure erano gli stessi democristiani a volere la mia presenza a determinati incontri. E voglio ricordare un episodio in particolare. Presidente della Regione era Carmelo Azzarà, Emilio Colombo convoca un incontro per capire i motivi dei ritardi nella ricostruzione dopo il terremoto del 1980. Io mi siedo dietro Colombo, lui non mi vede. I toni dopo un po’ si alzano, Azzarà tenta di giustificare, ma Colombo è molto arrabbiato. Poi vedo Azzarà scrivere una cosa su un foglietto e passarlo a Colombo. Io ero proprio dietro e leggo. C’era scritto “Presidente è presente il giornalista comunista Grasso”. Colombo si gira, mi guarda e mi dice “Scriva, scriva”. C’era reciproca stima, così come con Tonio Boccia, all’epoca segretario della Dc. Io avevo sempre l’apertura del giornale e questo nonostante le mie idee diverse. E non era così scontato. Chi non è cresciuto in quegli anni non può immaginare il potere enorme che aveva Colombo».

La tua fama è cresciuta indubbiamente quando sei diventato l’editorialista di punta della Nuova. Poi l’incarico che ti ha offerto De Filippo. Un passaggio letto come cooptazione della Regione di tutte le forze libere e di opposizione…

«Posso immaginare che molti abbiano letto in questo modo la mia scelta. In realtà sono stati diversi fattori personali a farmi dire sì a De Filippo. Io lavoravo in banca da 35 anni e cominciavo ad avvertire una grande stanchezza. Ero impegnato prima in banca, poi in redazione, un’intera giornata di corsa con la paura di non chiudere il giornale nei tempi. Noi all’epoca abbiamo fatto il primo vero giornale di opposizione e io ogni giorno mi scervellavo perchè al lettore volevo raccontare qualcosa di nuovo. Attenzione, non solo critica. Il mio ruolo di editorialista l’ho inteso diversamente, io volevo anche indicare una strada. Perchè resto profondamente convinto che anche il giornalista sia classe dirigente in questo Paese. E quando De Filippo mi ha chiamato – ero stato l’unico a difenderlo sulle sue vicende personali, perchè io criticavo la politica ma anche la magistratura – ho detto sì. Ho lasciato la banca e il giornale e ho ritrovato ritmi di lavoro più normali. Attenzione, sul piano economico ci ho rimesso, ma era la possibilità di lavorare con un ritmo diverso e guardando le cose da un altro punto di vista che, alla fine, mi ha fatto scegliere».

Ultima domanda: secondo te questa professione ha ancora un futuro?

«E’ sicuramente una professione a rischio. Le innovazioni tecnologiche, i social, ci hanno fatto pensare che l’informazione non sia più una cosa da comprare, per cui bisogna pagare. E noi lucani abbiamo un problema in più. E’ più forte l’oralità, anche per i piccoli numeri. Le notizie si trasmettono così. Ed erroneamente pensavamo che un giornale regionale ci avrebbe fatto fare il salto di qualità. Non è stato così, evidentemente. Ora possiamo dire che è colpa della crisi, ma la verità è che già prima del 2007 non c’è stato il boom che tutti si aspettavano. I giornali sono così sempre più traballanti e, nel tentativo di far crescere lettori, calcano sempre più la mano sulla denuncia e sulla critica. Magari dando spazio a sigle o associazioni che sono auto-referenziali. E i lettori, invece di crescere, si disorientano. La credibilità è importante e seguire i social e quel linguaggio volgare che spesso i nuovi media hanno, non porta da nessuna parte».

a.giacummo@luedi.it

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