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E’ appena tornata dal Brasile, ma ogni sera via Skype parla con tutto il mondo per salutare gli amici che in tutti i continenti, la seguono.

Merito delle nuove tecnologie, ma soprattutto della passione. Quella che muove  il suo lavoro di giornalista (tutte le domeniche alle 10,15 con la trasmissione “Cristianità”, in onda su Rai World) e nel mettere in atto la  sua vocazione.

Suor Miriam Castelli, è venuta a Matera,  ospite del Moica  (Movimento Italiano Donne Casalinghe) che ha promosso ieri nella casa di spiritualità S. Anna l’incontro-dibattito sul tema: “Dire donna è…”. Prima dell’incontro ha affrontato alcuni temi attuali all’insegna di una fase storica in cui il ruolo della comunicazione e delle nuove tecnologie sta assumendo spazi sempre più ampi.

Spiritualità e giornalismo: un binomio che convive bene o ha bisogno di un elemento di sintesi?

«Ci vuole equilibrio in tutte le cose. Credo che non sia difficile, però, se si considera la professione come l’esercizio di un dono è una passione. Per me il giornalismo non è una professione è una passione che si abbina a quella per Dio».

Sono nate insieme?

«Credo di sì, anche se accorgersi di avere questa passione si deve alla vita, alla realtà. Ai miei tempi c’erano le suore dell’asilo, dell’ospedale, dell’orfanatrofio degli anziani e non me ne piaceva nessuna. Non è che non apprezzavo quel servizio, ma ho incrociato suore che dicevano di avere come dono l’annuncio attraverso i mass media che, all’epoca non erano così importanti. Ha ragione il Papa quando dice che Dio ci ha dato la vocazione sin da bambino. Credo che questo valga per tutte le professioni. In genere ho sempre scoperto, facendo le cose, di avere un dono».

Papa Francesco sta caratterizzando  questi tempi per l’attenzione alla comunicazione e solo pochi giorni fa sono diventati santi due Pontefici, rispettivamente simboli di altre epoche. I Papi, secondo lei,  hanno ancora la capacità di segnare i tempi?

«I Papi più di ogni altro, sono coloro che vivono dentro la storia. Parliamo di uomini di comunicazione, in particolare gli ultimi due. Io sono una filosofa e ricordo che una volta ci insegnavano: penso dunque sono. Oggi, invece, ho cambiato la  mia tipologia: io comunico quindi sono. Come sosteneva Buber, l’uomo è un essere relazionale per natura; esiste in funzione degli altri. Non possiamo negare di essere entrati nell’era della comunicazione».

Quali sono i limiti positivi e negativi delle nuove tecnologie?

«Ogni sera io parlo con l’universo mondo, via Skype e chatto con cinque continenti. E’ la seconda parte della mia giornata. E’ questo l’aspetto positivo: ho un sacco di amici, aiuto tanta gente, c’è una missione in questo. L’aspetto negativo sta nell’assolutizzare. In questo momento c’è un rischio: chi usa i nuovi media, viene da una cultura che elaborava, apprendeva attraverso i libri e la logica. Le nuove generazioni non elaborano cultura, ma attingono dagli altri. Nel tempo vedo un pericolo in questo. Per usare una metafora, quando furono inventati i primi insetticidi per salvare le colture, si cominciò con poco poi dall’America sono arrivati quelli più potenti e poi quelli ancora più forti. Alla fine abbiamo scoperto che le falde acquifere sono inquinate: abbiamo salvato l’agricoltura, rovinando quello che è essenziale. Per fortuna ce ne siamo accorti in tempo. L’esperienza non diventa cultura che è tale se cresce, non se viene copiata».

Lei oggi è in una regione che è tra quelle in cui, in Italia, si legge  meno. Secondo lei, come si può risolvere questo problema, si può recuperare il valore della cultura?

«Dipende anche dalla scuola e dalla capacità di trasmettere la forza della vera cultura, premiando chi la elabora, un certo tipo di proposte. Pensavo, ad esempio, a quanta arte attraversa lo stivale. Ci porteranno via tutte le imprese, ma la nostra cultura no, non lasciamocela rubare».

Bisognerebbe, però, tutelarla meglio.

«Ci vuole un ministero, e bisogna premiare chi ce l’ha. Oggi chi ha la cultura spesso è più povero di un altro. Siamo in un momento favorevole perchè siamo passati da un’esperienza agricola, in cui la parola scritta si è trasformata in immagine, senza che ne rendessimo conto. Io ho vissuto molti anni in America latina e la cultura europea, era quella da cui ho attinto le mie  basi culturali che mi rendono una giornalista diversa (fino a qualche anno fa molti giornalisti non erano laureati). In quella realtà mi sono resa conto che si è passati dall’analfabetismo totale, ai mass media radiotelevisi. In molti non sanno leggere nè scrivere, ma ascoltano la radio. Quel passaggio brusco dal niente alla tecnologia è pericoloso. Ciò che rimane nell’uomo è la fatica della conquista, la riflessione, il recupero dell’esperienza».

La sua trasmissione, “Cristianità”,  su Raiworld è seguita da decine di milioni di telespettatori, si dice 70. Le fa effetto sapere che mentre lei commenta l’Angelus di Papa Francesco, in diversi luoghi del mondo, in diverse cultura, ascoltano queste parole?

«Ho viaggiato molto; è la sesta volta, ad esempio, che vado in Australia invitata dalla comunità italiana. Andavo al supermercato e le persone mi fermavano e mi toccavano. Fa effetto scoprire che al capo opposto del mondo ci sono migliaia di persone che ti conoscono. Quando ho letto le statistiche, ho capito del potenziale di questo programma; in particolare è accaduto quando è stata chiusa Rai International, nel dicembre 2011 in funzione di una mission diversa. I cinque continenti si sono scatenati, al punto che la Rai l’ha ripresa su Rai World. Adesso il nostro programma è secondo rispetto a “La giostra dei goal”.

Si sente una diva televisiva?

«Ho una strada incoscienza che mi ha sempre accompagnata. Sono felice, mi sembra di parlare con degli amici. Non mi sono mai posta  il problema: la  star è  colui per il quale io opero. Con la nostra trasmissione scopriamo tanti aspetti, ciò  che mi colpisce è l’italianità bella, all’estero c’è un’Italia migliore perchè ha portato la fatica dell’affrontare nuove realtà, ha aguzzato l’ingegno. Tirando fuori il meglio di se’, gli italiani hanno assunto il nuovo potenziando l’antico. Sono cresciute, così, persone più ricche. Quando sono arrivati, questi italiani, hanno trovato il deserto, costruito le città rimboccandosi le maniche. E non si facciano confronti con gli emigranti che vengono in Italia, quella è un’altra cosa».

Ritiene che in Italia ci sia una crisi delle vocazioni?

«C’è ed è dovuta a molti fattori. Non si possono sottovalutare i cambiamenti culturali di questi decenni in cui l’esercizio del dono e l’espressione della fede hanno trovato nuove forme. Con la valorizzazione dei laici sono nate altre vocazioni che hanno giustificato, in qualche modo, un cambiamento nelle scelte. In passato chi voleva fare la catechista aveva solo una strada; la società era agricola e con poca cultura. Oggi associazioni laicali e catecumenali, vivono fortemente l’esperienza cristiana. Credo che questo abbia modificato molto l’idea della scelta vocazionale, come conferma anche l’esperienza delle famiglie consacrate. Non voglio giustificare la carenza di vocazioni, ma queste maturano laddove ci sono famiglie sane».

La maternità le manca?

«Tra di noi ci chiamiamo madre e sorella e non è un caso. Se la maternità è funzionale all’amore, l’esercizio dell’amore in una realtà che ti chiede in continuazione di occuparti degli altri, spiega tutto».

a.ciervo@luedi.it

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