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La fase storica che viviamo ci sottopone ad un quotidiano esercizio di equilibrio e razionalità. Drammi, povertà e difficoltà entrano nelle redazioni con il loro carico di particolari a volte tristi, spesso imbarazzanti.

L’esperienza non basta, le vittime possiedono un perverso fascino che le trasforma da una parte in derelitti da sostenere con la forza delle parole, con l’incisività di un articolo o di un corsivo.

Dall’altro, esse rappresentano una straordinaria occasione di scrittura, in cui a volte retorica e aggettivazione aiutano a rendere l’impatto della notizia.

In questo meccanismo, come un germe invisibile, si insidia il falso, il finto protagonista, colui che utilizza con maestria parole sguardo, lamento, per fare del giornalista che ha di fronte il suo miglior strumento per attecchire nella opinione pubblica. E’ quello il passaggio attraverso il quale si deve evitare di farsi imprigionare; ma è un percorso talmente sottile e scivoloso da mettere a rischio la propria incolumità professionale.

Ma, diciamocelo sinceramente, come mettere in dubbio il dolore lancinante  per una morte violenta, improvvisa? Sarebbe necessario  penetrare a fondo nell’animo umano, soprattutto in quello meno sicuro di se’, pronto a diventare tutt’altro pur di essere sempre al centro dell’attenzione. Un animo che fa brutta mostra di se’ sulle pagine dei giornali. 

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