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«SPERIAMO che la telefonata di Papa Francesco sia il segno di un’apertura. Bisogna ancora fare piena luce su come è stato possibile che una ragazza di 16 anni sia stata uccisa. Come è stato possibile che il suo corpo sia rimasto per 17 anni in una chiesa uscita da tempo fuori da ogni controllo. A detta degli stessi responsabili, il vescovo attuale e chi c’era prima di lui».

E’ quanto afferma Giuliana Scarpetta, l’avvocato che da 15 anni a questa parte assiste la famiglia Claps nella loro battaglia legale. Obiettivo: individuare le responsabilità di uno strazio, la morte di Elisa e il mistero impenetrabile sulla sua “scomparsa”, che li ha segnati nel profondo. Come ha segnato nel profondo, in particolare mamma Filomena, la scoperta che il corpo di sua figlia era rimasto nascosto per tutto il tempo nel sottotetto della Trinità, sopra le teste dei fedeli che come lei, ogni domenica, andavano a messa per pregare.

«Avevamo scritto due volte al predecessore di Papa Francesco: chiedendo risposte e denunciando l’atteggiamento di alcuni uomini che di sacro a parte gli abiti non avevano nulla. Ma da Roma non era arrivata nemmeno una parola. Adesso è successa questa cosa magnifica e ammetto che guardiamo avanti con più ottimismo».

Per cominciare c’è il processo alle due donne che svolgevano le pulizie nella Trinità, accusate di aver mentito sulla scoperta del corpo di Elisa.

Stando a quanto riferito dal giovane viceparroco della chiesa, la presenza dei resti della studentessa era stata notata alcune settimane prima dell’arrivo degli operai incaricati di rimediare a un’infiltrazione d’acqua dal tetto. Soltanto che lui, caduto malato, se ne sarebbe dimenticato senza dare troppa importanza alla cosa. Ha detto di essere stato del tutto all’oscuro del giallo che avvolgeva il destino della ragazza, “scomparsa” il 12 settembre del 1993 dopo essere andata a un appuntamento proprio lì davanti. Per questo anche la polizia era entrata più volte in chiesa senza riuscire a trovarla. Ma lui, all’epoca, era ancora in Brasile.

D’altra parte le due donne delle pulizie vivevano a Potenza. Eppure davanti a quelle ossa scarnificate non sono andate di corsa dalla polizia. Nè a casa della mamma di Elisa, poche centinaia di metri più giù, in via Mazzini, dietro quel portone inquadrato mille volte dalle televisioni.

Il 4 febbraio per Margherita Santarsiero e Annalisa Lo Vito, madre e figlia, è previsto l’inizio del dibattimento davanti al Tribunale di Potenza. Peraltro, come pubblicato nei giorni scorsi dal Quotidiano, non sarà un giudice togato a occuparsi del caso, che il procuratore del capoluogo Laura Triassi si è impegnato a seguire di persona. Ma un magistrato onorario, nonostante la sua oggettiva complessità e rilevanza sociale.

«Non ne sappiamo nulla». Spiega l’avvocato Scarpetta. «Notifiche a me o ai familiari non ne sono state fatte, perciò aspettiamo ancora di saperne qualcosa in più».

Rispetto invece alle questioni aperte con la diocesi di Potenza, inclusa la richiesta di un cospicuo risarcimento danni per quanto patito, l’avvocato non indietreggia nemmeno davanti alla telefonata del Papa.

«Se avessero rispettato il diritto canonico che prevede espressamente l’avvicendamento dei parroci dei si ribellano alla gerarchia, Don Mimì Sabia non sarebbe rimasto nella Trinità così a lungo. Qualcun altro al suo posto avrebbe potuto aprire porte rimaste chiuse chissà per quanto tempo. Elisa sarebbe potuta tornare dai suoi cari molto prima. La giustizia avrebbe potuto raggiungere chi l’ha uccisa. Il vescovo farebbe bene a pensarci. Di recente a Salerno è stato arrestato un alto prelato e a chi gli ha chiesto un commento ha risposto che se è andato in galera “non è certo perché assomigliava alla Beata Imelda”. Forse è il segno che davvero nella chiesa qualcosa sta cambiando».

l.amato@luedi.it   

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