X
<
>

Condividi:
9 minuti per la lettura

 

Gli accordi Regione-Cnr dietro l’inchiesta
La consulenza gratis e il miracolo “green”a San Nicola di Melfi
di LEO AMATO
POTENZA – «Noi dovevamo evidenziare una cosa. Che gli studi che erano stati fatti prima, quei pochi studi, presentavano delle criticità. Allora noi riportiamo in quella relazione punto per punto quello che si riesce a capire e quello che è stato fatto». Lo dice a denti stretti uno dei ricercatori del Cnr di Tito che hanno collaborato alle attività della commissione d’inchiesta sul caso Fenice. Ha scelto di non apparire ma «da lucano a lucano» sa come farsi intendere, replicando alle perplessità che hanno suscitato certe affermazioni rilasciate ieri pomeriggio nell’edizione più seguita del Tgr Basilicata.
L’inquinamento a San Nicola di Melfi? C’era anche prima dell’arrivo del termovalorizzatore. Anzi a ben vedere dopo l’avvio dei due forni alcune «criticità ambientali» si sarebbero sì appesantite, «con tutta l’area industriale di San Nicola di Melfi» (come a dire che le cause problema non andrebbero confinate a un singolo impianto), d’altra parte però i dati svelano che «per quanto riguarda le acque superficiali alcuni elementi chimici inquinanti si riducono». Un vero e proprio miracolo “green” che nessuno poteva prevedere. Anche se si sa che tecnologia e alte temperature riservano sempre qualche sorpresa. E non è finita. 
Nel rapporto finale del gruppo di lavoro dell’Imaa-Cnr di Tito Scalo dove sono descritti i risultati delle valutazioni tecnico-scientifiche sui dati ambientali che la Commissione di inchiesta su Fenice gli ha sottoposto c’è molto di più. Come una specie di controperizia sugli stessi dati analizzati dal consulente della procura della Repubblica di Potenza nell’ambito dell’inchiesta che vede sotto processo i vertici dell’Arpab e del Dipartimento ambiente della regione per disastro ambientale e una serie di omissioni d’atti d’ufficio a proposito della contaminazione della falda sotto l’impianto. Il professor Francesco Fracassi del Dipartimento di chimica dell’Università di Bari afferma infatti che «nello studio di valutazione di impatto ambientale del 1991, in base al quale è stato poi espresso giudizio positivo di compatibilità ambientale (alla realizzazione dell’impianto, ndr) vi è un solo referto di acqua di falda dal quale non si evince alcun inquinamento». Il tema è quello del “punto zero” o “punto bianco” da cui partire per stabilire l’effettiva contaminazione provocata da Fenice e le eventuali responsabilità di chi ha permesso l’entrata in funzione di un impianto che potrebbe aver cominciato a dare problemi già durante il suo collaudo partito a novembre del 1999. 
I ricercatori del Cnr giungono a conclusioni diverse. «Si evince sicuramente la presenza di nickel nelle acque di falda già prima della messa in funzione dell’impianto suddetto». Scrivono nella loro relazione evidenziando anche altri superamenti delle soglie di tolleranza stabilite dalla legge per le contaminazioni ambientali da «arsenico, cromo esavalente, mercurio, antimonio e selenio». In più si spingono a sostenere che la contaminazione da nickel oltre che preesistente sarebbe da mettere in relazione con un’attività antropica in corso, mentre Fracassi in proposito parlava di un’origine naturale. Per quanto poi ripieghino ammettendo che comunque la posizione dei pozzi da cui sono stati effettuati i campionamenti indicata dal professore «lascia ipotizzare che l’impianto Fenice contribuisca almeno in parte alla presenza di nickel nella falda». 
In altre parole: al bando le certezze. E pensare che l’accordo di collaborazione con la commissione d’inchiesta aveva per oggetto «un supporto di natura tecnica» per aiutarla a «comprendere documenti e atti con contenuti di difficile lettura». Un accordo gratuito, quello stipulato il 4 giugno 2012 tra l’istituto e il capogruppo dell’opposizione in consiglio e presidente della commissione Nicola Pagliuca, a cui ne sarebbe seguito un altro non più tardi di due settimane dopo, il 19 giugno del 2012, con il presidente della giunta Vito De Filippo. Oggetto: il «quadro» delle collaborazioni del Cnr con la Regione Basilicataper i prossimi cinque anni. Ma stavolta a titolo oneroso, a valere su «fondi regionali (Fas, Por, Fesr, royalties delle estrazioni petrolifere e altre fonti finanziarie che si renderanno disponibili)» da valutare «volta per volta» attraverso la stipula di apposite convenzioni.
E la comprensione dei dati sulla contaminazione di Fenice? «E’ un inquinamento che è compatibile con le attività antropiche quando queste impattano con un contesto ambientale come quello che c’è a San Nicola di Melfi, quand’anche lì c’è una presenza di criticità ambientali che è stata rilevata per le cose che siamo riusciti a dire». Così l’esperto “chiarificatore” davanti alle telecamere del Tgr rispondendo a una domanda sul carattere più o meno «preoccupante» di quanto si nasconde nella falda. E a caval donato…   

POTENZA – «Noi dovevamo evidenziare una cosa. Che gli studi che erano stati fatti prima, quei pochi studi, presentavano delle criticità. Allora noi riportiamo in quella relazione punto per punto quello che si riesce a capire e quello che è stato fatto». Lo dice a denti stretti uno dei ricercatori del Cnr di Tito che hanno collaborato alle attività della commissione d’inchiesta sul caso Fenice. Ha scelto di non apparire ma «da lucano a lucano» sa come farsi intendere, replicando alle perplessità che hanno suscitato certe affermazioni rilasciate ieri pomeriggio nell’edizione più seguita del Tgr Basilicata.L’inquinamento a San Nicola di Melfi? C’era anche prima dell’arrivo del termovalorizzatore. Anzi a ben vedere dopo l’avvio dei due forni alcune «criticità ambientali» si sarebbero sì appesantite, «con tutta l’area industriale di San Nicola di Melfi» (come a dire che le cause problema non andrebbero confinate a un singolo impianto), d’altra parte però i dati svelano che «per quanto riguarda le acque superficiali alcuni elementi chimici inquinanti si riducono». Un vero e proprio miracolo “green” che nessuno poteva prevedere. Anche se si sa che tecnologia e alte temperature riservano sempre qualche sorpresa. E non è finita. Nel rapporto finale del gruppo di lavoro dell’Imaa-Cnr di Tito Scalo dove sono descritti i risultati delle valutazioni tecnico-scientifiche sui dati ambientali che la Commissione di inchiesta su Fenice gli ha sottoposto c’è molto di più. Come una specie di controperizia sugli stessi dati analizzati dal consulente della procura della Repubblica di Potenza nell’ambito dell’inchiesta che vede sotto processo i vertici dell’Arpab e del Dipartimento ambiente della regione per disastro ambientale e una serie di omissioni d’atti d’ufficio a proposito della contaminazione della falda sotto l’impianto. Il professor Francesco Fracassi del Dipartimento di chimica dell’Università di Bari afferma infatti che «nello studio di valutazione di impatto ambientale del 1991, in base al quale è stato poi espresso giudizio positivo di compatibilità ambientale (alla realizzazione dell’impianto, ndr) vi è un solo referto di acqua di falda dal quale non si evince alcun inquinamento». Il tema è quello del “punto zero” o “punto bianco” da cui partire per stabilire l’effettiva contaminazione provocata da Fenice e le eventuali responsabilità di chi ha permesso l’entrata in funzione di un impianto che potrebbe aver cominciato a dare problemi già durante il suo collaudo partito a novembre del 1999. I ricercatori del Cnr giungono a conclusioni diverse. «Si evince sicuramente la presenza di nickel nelle acque di falda già prima della messa in funzione dell’impianto suddetto». Scrivono nella loro relazione evidenziando anche altri superamenti delle soglie di tolleranza stabilite dalla legge per le contaminazioni ambientali da «arsenico, cromo esavalente, mercurio, antimonio e selenio». In più si spingono a sostenere che la contaminazione da nickel oltre che preesistente sarebbe da mettere in relazione con un’attività antropica in corso, mentre Fracassi in proposito parlava di un’origine naturale. Per quanto poi ripieghino ammettendo che comunque la posizione dei pozzi da cui sono stati effettuati i campionamenti indicata dal professore «lascia ipotizzare che l’impianto Fenice contribuisca almeno in parte alla presenza di nickel nella falda». In altre parole: al bando le certezze. E pensare che l’accordo di collaborazione con la commissione d’inchiesta aveva per oggetto «un supporto di natura tecnica» per aiutarla a «comprendere documenti e atti con contenuti di difficile lettura». Un accordo gratuito, quello stipulato il 4 giugno 2012 tra l’istituto e il capogruppo dell’opposizione in consiglio e presidente della commissione Nicola Pagliuca, a cui ne sarebbe seguito un altro non più tardi di due settimane dopo, il 19 giugno del 2012, con il presidente della giunta Vito De Filippo. Oggetto: il «quadro» delle collaborazioni del Cnr con la Regione Basilicataper i prossimi cinque anni. Ma stavolta a titolo oneroso, a valere su «fondi regionali (Fas, Por, Fesr, royalties delle estrazioni petrolifere e altre fonti finanziarie che si renderanno disponibili)» da valutare «volta per volta» attraverso la stipula di apposite convenzioni.E la comprensione dei dati sulla contaminazione di Fenice? «E’ un inquinamento che è compatibile con le attività antropiche quando queste impattano con un contesto ambientale come quello che c’è a San Nicola di Melfi, quand’anche lì c’è una presenza di criticità ambientali che è stata rilevata per le cose che siamo riusciti a dire». Così l’esperto “chiarificatore” davanti alle telecamere del Tgr rispondendo a una domanda sul carattere più o meno «preoccupante» di quanto si nasconde nella falda. E a caval donato…   

 

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE