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ANCH’IO sono d’accordo con quanto Lucia Serino scriveva pochi giorni fa, e vorrei contribuire a questo dibattito, alimentato anche dagli interventi successivi di Lorenzo Rota e Angelo Cotugno.
Potrei iniziare con una battuta, ricollegandomi alla frase finale citata da Angelo Cotugno di Freak Antonio (‘invece di risalire si può anche iniziare a scavare’): da archeologo non potrei che rallegrarmi, alla ricerca di nuove stratigrafie e passati. Ma è proprio su queste stratigrafie che vorrei soffermarmi: stratigrafie non di monumenti, ma di memorie, di identità perdute che nel tempo della società liquida (da poco abbiamo avuto qui ospite a Matera l’ideatore di questo concetto, Zygmunt Bauman) non riescono più a coagulare un senso di comunità. Leggo nelle parole di Cotugno ancora una confusione profonda (o piuttosto una vecchia interpretazione) su cosa la parola ‘cultura’ rappresenti: una esperienza estetica. Proprio perché siamo oltre i tempi del modernismo e addirittura del postmodernismo, è tempo che la cultura non sia più solo una semplice attività del sentimento, lasciati ai cultori del volontariato o delle classi privilegiate che della cultura ‘alta’ si nutrono. Cultura non deve più essere solo il momento dell’ozio e del tempo libero, di quelli che vanno ai musei, concerti, cinema, gallerie d’arte o che si incantano alla vista di una rovina archeologica. Cultura, a mio parere, deve rappresentare il termine di confronto per ripensarci come società in una visione lunga del futuro.
Bauman a Matera, rivolgendosi alle centinaia di giovani che riempivano la sala, diceva ironicamente, da novantenne, che lui non può occuparsi del futuro perché non se lo può permettere: ma li sollecitava a trovare, partendo anche dall’esperienza individuale, una risposta alla grande crisi del rapporto fra potere e politica rilanciando l’arte del dialogo, arte ormai scomparsa come capacità di costruzione. Arte del dialogo, come sempre diceva Bauman, che non è connaturata alla specie umana, tesa com’è al predominio.
La storia delle amministrative di Matera ne è un esempio, come già diceva Lucia Serino: la cultura, in questo, doveva essere condizione di partenza per saperci ridiscutere, e non come miraggio di un fortino d’assaltare.
Il dossier di Matera 2019 è, da questo punto, una visione, e non, come ancora ripete Cotugno in una vulgata che si sta diffondendo a Matera, una serie di eventi: una visione che provoca i materani ad uscire dalla cultura del mattone (e di una certa politica) per pensare prima ai contenuti e poi ai contenitori. Prima alla comunità, e poi alle forme (anche strutturali) che la comunità si vuole dare.
Open Design School, I-Dea, ecc, sono percorsi che ci sollecitano a gettare le basi per questa nuova era, che, come sempre Bauman diceva, ha bisogno di superare il ‘900 e andare oltre la crisi della politica. Rilanciando creatività e percorsi che intersechino la comunità tutta di Matera (oltre i Sassi) invadendo anche le fabbriche abbandonate, il territorio, le campagne, i paesi in via d’abbandono. Vuol dire rimettere la parola nei luoghi del silenzio.
E c’è una parola che raramente viene pronunciata quando si parla di cultura: lavoro. Uno degli elementi forti del percorso di Matera 2019, è stato quello di interrogarsi su come la cultura possa rispondere alla grande crisi del lavoro e della società, immaginandosi una comunità futura fatta di nuove professionalità. Possiamo noi ritornare alla terra usando la cultura? Possiamo salvare i paesi riaccendendo le comunità locali e portando nuovi cittadini? Possiamo portare i turisti, nella loro nuova accezione di cittadini temporanei, nei luoghi veri della memoria – contrapposti ai Sassi – come Serra Venerdì o San Giacomo, ripartendo dalle comunità locali? Possiamo ridare vita, attraverso il design, ai capannoni abbandonati? Io credo di sì. Ed è quello che peraltro stiamo cercando di fare anche in Università, con gli studenti, nelle aule e nei laboratori, e non sui prati verdi.
Ma bisogna avere una visione, tenendo come punto fisso una economia basata su un nuovo concetto di lavoro riportandolo al centro del discorso ‘costitutivo’ italiano (vedi articolo 1 della Costituzione) ed europeo.
Significa liberarsi del fardello del concetto di cultura ottocentesca/novecentesca, sentita come termine d’identità della costruzione nazionale, andando oltre l’estetica del Bel Paese in crisi, per essere felici (e quindi anche sentendosi belli) in una comunità che si riconosca in nuove dinamiche lavorative.
Tutto questo richiederà tempi lunghi, generazioni: ma solo ripartendo dal dialogo, dalla partecipazione, della condivisione, si potrà andare avanti, uscendo anche dagli eventi delle ormai tristi pantomime elettorali.
Dobbiamo solo decidere se rimanere intrappolati nell’estetica della vecchia cultura – della quale si nutre ancora il pensiero politico attuale – o essere visionari e scorgere (come ormai fanno da tutta Europa e anche il resto del mondo) nelle parole del dossier Matera 2019 un nuovo senso della cultura occidentale.

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