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POTENZA – Ci vuole coraggio, forse pure un po’ di incoscienza, «ma lo rifaccio se serve, perché ai miei figli posso guardarli in faccia». Stefano – chè tanto potrebbe chiamarsi pure Carlo, Guido o Michele – è per la sua famiglia che chiede di mantenere l’anonimato. Ci impiega un po’, guarda, osserva, poi fa un atto di fede e comincia a raccontare in questa casa del capoluogo, pochi metri quadrati e un computer portatile a raccogliere atti, fotografie e anni di vita. Stefano ha sì e no quarant’anni e la faccia rugosa di chi ne ha viste un bel po’. In Calabria, tempo fa, ha denunciato la mafia delle estorsioni e del pizzo. «Lo rifarei, giuro, ma sapesse quanto è difficile adesso continuare a lottare». Alle prese con una strada che assomiglia a un calvario burocratico, atti, documenti, nulla osta, ritardi, eterne anticamere, paradossi. Ieri è scoppiato. «Ha presente le pentole a pressione? Quando fischiano, non le puoi aprire all’improvviso», altrimenti esplodono. E Stefano all’improvviso è esploso, barricato per qualche minuto in uno degli atri che si annidano tra i vicoli del centro storico, con una pistola in mano (ma mai puntata contro nessuno). «Chiamate la polizia». E la polizia è arrivata.
Impossibile, a Potenza, non notare l’assembramento di agenti in via Pretoria, le due volanti parcheggiate nei dintorni, il trambusto improvviso di una mattinata qualunque del centro storico di provincia. «Che succede, che succede?». «Un uomo arrabbiato protesta, è in difficoltà». La spiegazione ufficiale consegnata ai passanti, in fondo, un po’ sa di verità. Perché Stefano racconta davvero di essere in difficoltà. «Lo Stato ci ha abbandonato, le istituzioni continuano ad abbandonarci, spesso è così che mi sento». Parla al plurale perché – spiega – la sua storia è una delle tante che si rincorrono da Nord a Sud del Paese, «una delle storie di chi come me ha avuto il coraggio di denunciare, facendo nomi e cognomi, per poi trovarsi così, praticamente con un bel bersaglio stampato sulla schiena». Aveva una ditta che ha dovuto chiudere perché «non ce la facevo più», rinunciando a casa, vita privata, relazioni personali. Per un po’ in uno dei programmi di protezione del ministero, ne è uscito volontariamente. A Potenza ha cercato un po’ di pace e di tranquillità, soprattutto per la famiglia. «Qui, devo dire, sono stato trattato bene, ho trovato grande sostegno da parte delle forze dell’ordine, ma anche di tanta gente comune e rappresentanti delle istituzioni». E’ questa la linea che fa la differenza, dice. «Certo che credo ancora nella magistratura, certo che credo ancora nella giustizia, ma credo soprattutto negli uomini, nei singoli che camminano al fianco dello Stato, quotidianamente, sempre in seconda fila». Dove si spezza il cerchio? «A livello politico, in alto, nelle stanze in cui si prendono decisioni» e forse si costruisce la legislazione. Quella destinata alla protezione e, più in generale, alla tutela di chi ha avuto il coraggio di denunciare intimidazioni, aggressioni, atteggiamenti mafiosi «è parecchio carente. Lo dicono anche gli stessi magistrati antimafia». Giura di non cercare pubblicità e chiede scusa mille volte per il trambusto mattutino. «Non conto io, sono solo preoccupato per la mia famiglia. Ma non mi pento di aver denunciato all’epoca chi voleva togliermi dignità e libertà. Lo facevano con me, era come farlo a tutti gli altri cittadini».

Sara Lorusso

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