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di LUCIA SERINO
POTENZA – «Maldicenze», «invidie», «gestione fallimentare», «frustrazioni professionali», «abitudine a ordire trame a discapito di chi ha ruoli di responsabilità e di chi cerca di elevarsi al di sopra della loro mediocrità». Questo è il ritratto che Sergio Caparrotti (in foto)lascia dell’ambiente dove ha lavorato quando, bufera giudiziaria già iniziata, decide di dimettersi dall’ospedale San Carlo dove era arrivato per concorso quattro anni prima.
Siamo nel 2008, è appena passato agosto. Il primo settembre Caparrotti scrive al direttore De Costanzo, al presidente della Regione De Filippo, all’allora assessore alla sanità, Tonino Potenza, al presidente della IV commissione, Gennaro Straziuso. Ha deciso di mollare. Fu proprio il Quotidiano a pubblicare ampi stralci di quella lettera. Letta a posteriori, alla luce dell’inchiesta del pm Colella, rende bene la rappresentazione di un contesto potentino che avrebbe “fatto fuori”, di lì a poco anche il primario di cardiochirurgia pediatrica, Cosimo Leone, ritornato a Cosenza solo pochi mesi dopo il suo arrivo a Potenza: non resse il tasso di bizantina sindacalizzazione che spesso da queste parti ha una funzione più ostativa che di concreta tutela di interessi diffusi.
Caparrotti, complice – per sua stessa ammissione come si può leggere nella lettera – il clima di forti sospetti venutosi a creare con l’inchiesta di Woodcock, lasciò Potenza. Un addio pieno di accuse e di risentimento. Quel posto faceva gola a molti, soprattutto a quelli che pensavano di aver «acquisito diritti occupando per anni la sedia del proprio studio o per semplici parentele politiche». Facile immaginare i potentati e le baronie in lista d’attesa. Le carte giudiziarie ben rendono il clima. Chi erano questi suoi colleghi? Severo il giudizio dell’ex primario: in pratica li giudica incompetenti essendo sprovvisti «di contenuti pratici e anche di modestia e conoscenza dei propri
limiti». Un ambientino, insomma. Altro passo della lettera: «Sarei considerato un usurpatore nei confronti del quale si calunnia e si trama dietro gli angoli aspettando il momento di debolezza o addirittura creandolo per poi assestare il colpo definitivo». Mentre Caparrotti denunciava c’era chi, a sua volta, testimoniava contro di lui. Credibili, si chiede oggi la difesa? E’ credibile un sistema che, ad esempio,denuncia le telefonate private fatte dal telefono dell’ospedale e tace sul fatto che in quattro anni non ha mai attivato l’utenza di servizio utilizzando il suo cellulare privato? E quante sarebbero poi queste telefonate private fatte a carico del San Carlo? Eccole qua, 186, in pratica una a settimana in quattro anni…E le infermiere utilizzate per le visite intramoenia? Beh, a chi va il 40 per cento della parcella ?
All’ospedale e dunque ben ci sta l’ausilio del personae ospedaliero….
Questioni miserrime, tutto sommato. Accumulatesi sotto il peso dei rancori e delle invidie che incrociavano le trame di primari e non solo ben protetti dall’apparato politico. «Io – scrive Caparrotti andandosene – credo di aver dimostrato tutto quello che un professionista possa e debba». L’ultima pesantissima accusa all’ambiente che sta lasciando: «Non c’è meritocrazia, c’è falsa cultura, c’è tempo per i pettegolezzi: non ci sono condizioni per garantire uno sviluppo in senso quali-quantitativo». Caparrotti scappa altrove, a Bari, dove attualmente lavora, «dove bisogna produrre numeri e qualità perché gli uni dipendono dall’altra e viceversa». Ma non è una «capitolazione davanti a
comportamenti ottusi e tracotanti». E’ piuttosto il rispetto per se stesso, per un professionista che «non può impegnare il tempo a rispondere a malcelati attacchi di individui che ignorano deontologia professionale e lo spirito di squadra»

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