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Cara Lucia,

quando un grande scrittore come Carlo Levi diventa uno strumento di propaganda politica, può succedere che lo si interpreti male e che nascano fenomeni tipo il levismo che infastidisce molti da sempre e crea imbarazzanti fenomeni e situazioni surreali in alcuni paesi dove si confondono la propria origine, i propri accadimenti, la millenaria presenza di uomini e cose, nella sola presenza di Carlo Levi.

Osservando i ritratti di Levi dipinti da Renato Guttuso e conservati a Bagheria presso Villa Cattolica, insieme a molti ritratti di intellettuali e a tele di grande emotività del noto pittore siciliano, per me che sono lucana e di Levi ho una visione probabilmente alterata da pregiudizi, da interpretazioni errate, è stato come riscoprirlo  per inserirlo in un panorama di grande cultura dell’Italia di quel periodo difficile e ancora non ben interpretato.

Pertanto, pur se molto condizionata da chi descrive e disegna, ancora oggi, ad esempio, le donne lucane con il fazzoletto nero in testa e gli uomini con le mani ruvide e piene di calli, ritengo che Levi vada interpretato per quello che è, senza etichette, senza fantasiose indicazioni  che accontentano coloro che hanno deciso che in Basilicata, pur vantandosi di innovazioni e progetti di avanguardia, tutto resti come è, immutabile da allora, fermo come uno stagno. Una regione in stallo dal secondo dopoguerra. Mi sono chiesta che tipo di vantaggio potesse trovare un paese in quella descrizione e se fossero state lette con attenzione le pagine dello scrittore.

In questa voluta immobilità, in questa assenza del tempo, forse, si innesta meglio un altro scritto di Carlo Levi e cioè “L’orologio” la cui sua pagina più nota ti riporto in calce perché c’è una descrizione della società italiana che supera i confini geografici Nord-Sud, che incanala verso altri percorsi, che restituisce, qualora ce ne fosse bisogno, un Carlo Levi esattamente per quello che è stato.

“[…] Ebbene: chi sono i Contadini? Sono prima di tutto i contadini: quelli del Sud, e anche quelli del Nord: quasi tutti; con la loro civiltà fuori del tempo e della storia, con la loro aderenza alle cose, con la loro vicinanza agli animali, alle forze della natura e della terra, con i loro dèi e i loro santi, pagani e pre-pagani, con la loro pazienza e la loro ira. […] Ma non sono soltanto i contadini. Sono anche, naturalmente i baroni […], quelli veri, con il castello in cima al monte: i baroni contadini. […] E poi ci sono gli industriali, gli imprenditori, i tecnici: soprattutto quelli della piccola e media industria, e anche qualcuno della grande: non quelli che vivono di protezioni, di sussidi, di colpi di borsa, di mance governative, di furti, di favoritismi, di tariffe doganali, di contingenti, di diritti di importazione, di privilegi corporativi. Gli altri, quelli che sanno creare una fabbrica, quel poco di borghesia attiva e moderna che, malgrado tutto, c’è ancora nel nostro paese, per quanto possa sembrare un anacronismo. E anche gli agrari, magari i grossi proprietari di terre, ma quelli che sanno dirigere una bonifica, ridare una faccia alla terra abbandonata e degenerata. […] E gli operai, […] la grande massa operaia abituata all’ordine creativo della fabbrica, alla disciplina volontaria, al valore che sta nelle cose. Non importa come la pensino, in quale partito siano organizzati: sono Contadini anche loro, e non solo perché vengono dalla campagna; ma perché, su un altro piano, hanno la stessa sostanza: la natura per loro non è più la terra, ma sono torni, frese, magli, presse, trapani, forni, macchine; con questa natura di ferro, sono a contatto diretto, e ne fanno nascere le cose, e la speranza e la disperazione, e una visione mitologica del mondo. Sono Contadini tutti quelli che fanno le cose, che le creano, che le amano, che se ne contentano. Sono Contadini anche gli artigiani, i medici, i matematici, i pittori, le donne, quelle vere non quelle finte. Infine, siamo Contadini noi: […] quelli che si usano chiamare, con una parola odiosa, gli “intellettuali”[…].  […] quelli che io definisco Contadini sarebbero i produttori: e se vi piace, usate pure questo termine”.

“E i Luigini, chi sono? Sono gli altri. La grande maggioranza della sterminata, informe, ameboide piccola borghesia, con tutte le sue specie, sottospecie e varianti, con tutte le sue miserie, i suoi complessi d’inferiorità, i suoi moralismi e immoralismi, e ambizioni sbagliate, e idolatriche paure. Sono quelli che dipendono e comandano; e amano e odiano le gerarchie, e servono e imperano. Sono la folla dei burocrati, degli statali, dei bancari, degli impiegati di concetto, dei militari, dei magistrati, degli avvocati, dei poliziotti, dei laureati, dei procaccianti, degli studenti, dei parassiti. Ecco i Luigini. Anche i preti, naturalmente, per quanto ne conosca molti che credono a quello che dicono […]. E anche gli industriali e commercianti che si reggono sui miliardi dello Stato, e anche gli operai che stanno con loro, e anche gli agrari e i contadini della stessa specie. […] Poi ci sono i politicanti, gli organizzatori di tutte le tendenze e qualità […]. Ce li metto tutti: comunisti, socialisti, repubblicani, democristiani, azionisti, liberali, qualunquisti, neofascisti, di destra e di sinistra, rivoluzionari o conservatori o reazionari che siano o pretendano di essere. E aggiungete infine, per completare il quadro, i letterati, gli eterni letterati dell’eterna Arcadia […]. […] i Luigini sono la maggioranza. […] Sono di più, ma non molto, per ragioni evidenti. […] perché ogni Luigino ha bisogno di un Contadino per vivere, per succhiarlo e nutrirsene, e perciò non può permettere che la stirpe contadina si assottigli troppo. […] I Luigini hanno il numero, hanno lo Stato, la Chiesa, i Partiti, il linguaggio politico, l’esercito, la Giustizia e le parole. I Contadini non hanno niente di tutto questo: non sanno neppure di esistere, di avere degli interessi comuni. Sono una grande forza che non si esprime, che non parla. Il problema è tutto qui”.

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