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Il piccolo Cocò Campilongo

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CASTROVILLARI – Prima di tutto ringraziano la magistratura per la “giustizia fatta”, e subito dopo rigettano l’accusa diffamante su Giuseppe Iannicelli, descritto come il nonno che nel timore di essere ucciso si faceva scudo del piccolo Cocò. E, infine, smentiscono l’intenzione del sorvegliato speciale di iniziare la collaborazione con i magistrati.

È questo il contenuto di due lettere fatte avere al Quotidiano, e pubblicate oggi sull’edizione cartacea, da Antonia Iannicelli e Maria Rosaria Lucera, rispettivamente mamma e nonna del piccolo Cocò, con la speranza di chiarire alcuni aspetti emersi con l’arresto di Cosimo Donato e Faustino Campilongo, due noti spacciatori di Firmo accusati di essere due dei killer che il 16 gennaio 2014 avrebbero sparato alla testa e bruciato il piccolo Cocò (Nicola jr Campolongo, figlio di Antonia Iannicelli), il nonno Giuseppe Iannicelli, e la compagna di lui, la giovane marocchina Betty Taouss. Anche se per ora gli inquirenti hanno certezza solo che i due li abbiano attirati nell’imboscata e dato fuoco all’auto nella quale si trovavano.

Le lettere sono state spedite via fax dal carcere di Castrovillari dove madre e figlia si trovano, insieme a molti altri componenti della famiglia, per scontare le pesanti condanne per spaccio di droga inflitte dopo l’operazione “Tsunami” del giugno 2011. Dal testo, scritto con vistosi errori di ortografia che dichiarano l’ambiente sociale nel quale tutta questa vicenda si è consumata, emerge con chiarezza la convinzione da parte della famiglia Iannicelli, fin dal primo momento, che gli autori materiali del triplice omicidio siano i “firmajuali” (ovvero quelli di Firmo); come già captato nelle intercettazioni ambientali e telefoniche eseguite dai carabinieri del Ros su ordine delle direzione distrettuale antimafia di Catanzaro.

«Sono la mamma del piccolo Cocò – scrive Antonia Maria Iannicelli, usando parole che non ci si aspetterebbe da chi nei tribunali è sempre stato alla sbarra e nelle forze dell’ordine vede solo il nemico giurato. «Finalmente ho avuto giustizia per il mio angelo. Voglio ringraziare coloro che hanno preso i crudeli assassini di mio figlio. Un animale non avrebbe usato tutta questa ferocia. Ora il mio piccolo Cocò ha avuto giustizia, ma voglio anche dire che non era così come dicono: uno scudo per mio padre. Erano entrambi legati. Il giorno del mio arresto, il 17 aprile 2013 (ritorno in carcere dopo la revoca degli arresti domiciliari, ndr), mio figlio in caserma è stato affidato a mio padre; e più volte sono stati fatti appelli per avere aiuto: per farmi accudire e stare vicino ai miei figli, che da madre do tutta me stessa per i miei figli. E tutto questo mi è stato sempre negato. Le mie ferite che porto dentro e il mio dolore nessuno potrà colmarlo…».

«VOGLIO VEDERE IN FACCIA LE BESTIE» – «Mio padre è stato costretto ad assumere una badante» scrive ancora Antonia Iannicelli, riferendosi a Betty, l’amante ventisettenne che Peppino Iannicelli fa entrare in casa con il ruolo ufficiale di babysitter. «E se faceva cose illecite non si sarebbe portato mai dietro mio figlio. E né, tanto meno, una donna».

«Ora aspetterò di guardare in faccia queste bestie per dirgli come dormono da due anni. Ancora oggi dico come hanno potuto avere tutta questa cattiveria contro il mio piccolo Cocò».

Nel finale, Antonia Iannicelli dà voce a una speranza certamente condivisa anche dai magistrati della Dda: «Spero – dice – che si pentiranno al più presto di tutto ciò che hanno fatto e diranno tutta la verità e assumersi tutte le responsabilità. Una cosa chiedo agli assassini di mio figlio – conclude la mamma di Cocò – come fanno a dormire la notte? Uno degli assassini è anche padre; come fa a guardare i suoi figli sapendo di aver ucciso un bambino innocente? Mi fermerò soltanto quando sarà fatta giustizia dura per gli assassini, anche se so che nessuno e niente potrà ridami mio figlio. Gli assassini me li hanno portati via, ma mio padre e mio figlio resteranno nel posto più bello: il mio cuore».

«MAI UN PENTITO» – Anche Maria Lucera incomincia la sua missiva, scritta in stampatello come quella della figlia, col «ringraziare la giustizia di aver potuto vedere i volti delle bestie crudeli che mi hanno assassinato mio marito e il mio piccolo Cocò con la peggiore ferocia».

«Ma oggi sono molto soddisfatta di aver avuto giustizia e spero di guardagli negli occhi e dirmi quanta malvagità hanno avuto con un bambino di solo tre anni. Ma sia fatta giustizia nel modo più severo».

«Mio marito, anche se ha avuto numerosi problemi giudiziari, non è mai stato un uomo da pentirsi» scrive la moglie di Peppe Iannicelli, facendo riferimento e smentendo «lettere mai esistite» nelle quali, secondo la procura antimafia, il sorvegliato speciale confidava alla moglie l’intenzione di diventare collaboratore di giustizia. E sarebbe stata questa, sempre secondo la Dda, una delle possibili cause della sua eliminazione. Nella parte finale della sua lettera, Maria Lucera ricalca le parole della figlia contro la tesi dell’utilizzo di Cocò come scudo da parte del nonno: «Ha sempre amato la famiglia e mai usato nessuno come scudo». «Chi sbaglia, paga» conclude la nonna di Cocò, con un’espressione quanto mai significativa per lei che sta pagando con la galera i suoi affari nella droga. E aggiunge, riferendosi a Donato e Campilongo: «La giustizia ci dovrà essere anche per loro; anche se nessuno mi ridà mio marito e il piccolo Cocò. Ma di sicuro riposeranno in pace».

I DUE SOSPETTATI – Sul luogo dell’atroce delitto oltre ai due presunti colpevoli, già arrestati, erano presenti altri due sospettati, il cui profilo è già noto agli investigatori, che hanno messo alcuni nomi nero su bianco. Secondo la ricostruzione investigativa, dunque, almeno quattro persone avrebbero preso parte all’uccisione del piccolo Cocò Campolongo e dei due familiari, il nonno del bambino e la sua convivente.

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