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Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella

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Non tutte le volpi finiscono in pellicceria. Una vecchia volpe come Roberto Calderoli ha avuto un’idea geniale per portare avanti tra tante insidie il suo disegno di legge sull’ autonomia differenziata.

Una delle  principali critiche che venivano rivolte a quel progetto (ed era una critica fondata) stava nel rinvio della  definizione dei Lep (tenuti a garantire l’uniformità dei diritti in tutto il Paese) a dopo l’approvazione della legge. Si sa che i Lep (o con quale altro acronimo sono stati definiti nei vari decenni trascorsi inutilmente) sono sempre rimasti una chimera o, al massimo, un esercizio simile a una Grida manzoniana, perché per garantire un servizio o una prestazione non basta una norma, ma sono necessari dei mezzi, delle strutture, delle risorse e del personale adeguato.

Calderoli, però, è stato al gioco: “Volete i Lep? Li avrete!’’. E ha  nominato una commissione con quell’incarico presieduta da una personalità del calibro di Sabino Cassese,  assicurando al governo una collaborazione di prestigio e garantendo al suo disegno di legge un corollario  tecnico-scientifico che le opposizioni non potranno demolire senza neppure averlo letto.

Si muove con  maggiore lentezza l’altro impegno di riforma istituzionale che, nel programma di governo, costituiva la  ‘’grande mediazione’’ tra i partiti della maggioranza: quel presidenzialismo indicato con criteri vaghi anche a livello delle definizioni. Perché non si è mai riusciti a capire fino in fondo se si trattasse della elezione diretta del capo dello Stato oppure di un superamento della Repubblica parlamentare prevista nella Costituzione. Sarebbero ambedue soluzioni complesse che richiederebbero – è ovvio – una riforma  costituzionale; ma mentre l’elezione diretta allineerebbe l’ordinamento costituzionale italiano a quello che avviene in quasi tutti i Paesi europei (è una espressione meramente geografica) laddove non esiste un regime monarchico, il presidenzialismo (modello Usa) o il semipresidenzialismo (modello Francia)  richiederebbe una revisione costituzionale tanto ampia che non potrebbe essere effettuata con i criteri ordinari previsti dall’articolo 138 della Costituzione. Credo che sarebbe indispensabile almeno l’elezione di una Assemblea costituente, perché un cambiamento tanto significativo che richiederebbe la modifica non solo di un numero infinito di articoli della Carta, ma il suo intero chassis. Ma una vera e propria modifica  strutturale dell’ordinamento di una democrazia non è mai stata compiuta a freddo, come se si trattasse di  ridipingere il tinello di casa.

Le Costituzioni nascano da eventi drammatici, a scopo di determinare una  frattura con il regime precedente (in questo senso è corretto definire antifascista la Legge fondamentale  del 1948). Noi non abbiamo – per fortuna – questa esigenza. Poi c’è davvero bisogno di cambiare passo in modo tanto radicale? Nel presidenzialismo il capo dello Stato è anche la guida del potere esecutivo e non è  condizionato da quello legislativo se non nell’esercizio della sua funzione, in quante chiamato a varare le  leggi. Chi pensa che sia l’architettura istituzionale far funzionare le cose, si illude. Basterebbe guardarsi  attorno Oltralpe e Oltreoceano per accorgersi che non è così.

Le istituzioni al pari delle norme evolvono nel  tempo insieme con la società. L’elezione diretta del presidente da parte del popolo oppure del Parlamento riunito in seduta comune, può avere un diverso rilievo politico; ma la differenza la fanno i poteri previsti, il  loro esercizio e quindi la personalità del capo dello Stato. E’ sicuramente più decorativo il presidente delle  Repubblica tedesca, eletto dal popolo, che non il nostro Sergio Mattarella, il quale ha dimostrato quanto può influire nelle vita politica di un Paese, un capo dello Stato che intende avvalersi dei suoi poteri. Nella Prima Repubblica, nel contesto di una legge elettorale rigidamente proporzionale, il presidente aveva un ruolo più autonomo nel dare l’incarico per la formazione del governo. Potremmo annoverare una lunga serie di presidenti del Consiglio, magari appartenenti tutti ad un medesimo partito, ma incaricati con un affidavit specifico del Quirinale. Magari il capo dello Stato faceva meno caso all’elenco dei ministri nella consapevolezza che erano l’esito della composizione di equilibri interni. Nella Seconda Repubblica, finché è  stato possibile, le leggi elettorali hanno indicato un vincitore che, nei fatti (ma non in via di diritto)  orientava la scelta del presidente incaricato. Il Quirinale allora ha cominciato a fare pesare il suo potere di  nomina dei ministri, arrivando – è il caso di Mattarella – a porre dei veti in base all’orientamento politico di  certi esponenti nei confronti di temi considerati irrinunciabili (Savona, l’Europa e l’euro).

Il presidente della  Repubblica può influenzare il Parlamento nell’attività legislativa non solo con i suoi poteri formali di firma e  di promulgazione delle leggi, ma anche attraverso una moral suasion preventiva. Mattarella, nel 2018, ha  affrontato, avvalendosi dei suoi poter istituzionali con grande correttezza, il rischio di uno deragliamento  del governo giallo-verde dai binari tradizionale della politica estera ed europea. Ed riuscito, in pochi mesi, a  riportare all’ordine quello stesso governo e ad adottare le stesse politiche contro le quali si era scagliato al  momento della sua costituzione. Ogni capo dello Stato ha avuto un suo stile personale (Giorgio Napolitano  istituì persino un gruppo di lavoro con il compito di elaborare un programma di riforme per il governo che sarebbe dovuto nascere, mentre nella precedente legislatura aveva realizzato l’operazione del governo tecnico presieduto da Mario Monti. Nei fatti, poi, la prassi istituzionale italiana – se si guarda alla funzione e  non alla forma – sta scivolando verso una monarchia elettiva. Da quando è in vigore la Costituzione non era  mai successo che un presidente fosse confermato per un secondo mandato. Da noi questa insolita prassi si  è già verificata per due volte. A dimostrazione della flessibilità delle norme e della possibilità di una loro  evoluzione senza che vi sia la necessità di riscriverle o di novellarle, magari in modo più confuso.


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