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ROMA – Al capitano dei carabinieri che subito dopo il rilascio gli chiese se era Paul Getty junior, precisò: «terzo, Paul Getty III, dopo Daddy, che è il secondo, e il nonno, che è il primo». Poi l’allora diciassettenne erede di una delle più ricche dinastie del petrolio degli Stati Uniti aspettò negli uffici dei carabinieri di Lagonegro l’arrivo della madre da Roma, dove era stato rapito il 10 luglio 1973.

John Paul Getty III è morto ieri mattina in Gran Bretagna, dopo una lunga malattia. Il suo nome era balzato alle cronache di tutto il mondo assieme a
quello di Lauria dove venne liberato dopo più di cinque mesi di prigionia.
Poi i riflettori si spostarono su Lagonegro che nel suo piccolo Tribunale
ha ospitato decine di inviati per il processo ai rapitori, chiuso a Potenza
in appello con una sentenza che ha lasciato spazio a molte speculazioni.
Sul banco degli imputati il gotha delle cosche della ‘ndrangheta dei
Piromalli e dei Mammoliti, che lo rilasciarono all’alba del 15 dicembre
sull’Autostrada del Sole, dopo 158 giorni, con una cicatrice rossastra al
posto dell’orecchio destro, inviato alla famiglia per dimostrare che il
rapimento non era una messinscena. All’inizio, infatti, in pochi avevano
creduto al sequestro di questo hippy di lusso, scomparso alle tre di
mattina a Roma nella zona di piazza Farnese, a due passi da piazza Navona e
campo dè Fiori. Si pensò che avesse montato tutta la storia per estorcere
denaro al nonno ricchissimo. Per più di due mesi tutto tacque, almeno
ufficialmente, anche se si parlò di contatti tra rapitori e legali della
famiglia e di detective arrivati dall’America. Poi il 14 novembre,
preannunciato da una lettera, i rapitori mandarono ad un quotidiano un
plico con dentro un ciuffo di capelli rossi e un orecchio destro tagliato.
La madre, Gail Harris, l’unica ad aver sempre creduto al sequestro,
riconobbe i capelli, ma ci furono dubbi anche sull’orecchio. Otto giorni
dopo la prova: una telefonata avvertì che alcune fotografie di Paul Getty
con l’orecchio mozzato erano state lasciate sul bordo dell’autostrada
Roma-Napoli, vicino a Valmontone. Il ribrezzo generale per il «reperto
anatomico» investì il padre e il nonno del rapito e si arrivò al paradosso
quando decine di lettori scrissero ad un giornale chiedendo l’apertura di
una sottoscrizione popolare per mettere insieme i soldi del riscatto.
L’atteggiamento dei primi due componenti della dinastia Getty sembrò
sconvolgere anche i rapitori, i quali nel messaggio che accompagnava le
foto del ragazzo scrissero della famiglia «che è la più ricca del mondo e
dimostra di essere la più caina». A quel punto i Getty si mossero e le
trattative vennero condotte con più concretezza. Chiesto e ottenuto il
silenzio della stampa, intorno al 12 dicembre un rappresentante di Paul
Getty senior consegnò ai rapitori la cifra sulla quale era stato raggiunto
l’accordo: un miliardo e settecento milioni di lire. Settantadue ore dopo
vi fu il rilascio dell’ostaggio, lo stesso giorno dell’ottantunesimo
compleanno del capostipite. Il processo di primo grado per il rapimento di
Paul Getty III terminò nel luglio del 1976 a Lagonegro con due condanne e
sette assoluzioni, anche se cinque degli assolti furono condannati per
altri reati. I due imputati riconosciuti responsabili del sequestro erano
«manovali», mentre degli unici due personaggi di rilievo imputati uno,
Girolamo Piromalli, detto «Momo», fu assolto per insufficienza di prove da
ogni accusa, e l’altro, Saverio Mammoliti, «Saro», latitante da tempo, fu
condannato per traffico di stupefacenti e associazione per delinquere. In
Corte di appello, a Potenza, le pene furono ridotte a tutti. Tranne poche
banconote ritrovate, il grosso del riscatto sparì nel nulla.

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