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di OTTAVIO ROSSANI
Il naufragio della Costa Concordia è negli occhi di tutti gli italiani e di tutto il mondo. L’Italia ne esce ancora una volta con l’immagine di pressapochismo, di approssimazione, di incompetenza, di menefreghismo. Un naufragio che si poteva evitare con un minimo d’attenzione da parte di chi controlla le carte nautiche, chi è al timone, chi comanda. Gli aspetti non chiariti sono moltissimi, nonostante le centinaia di trasmissioni televisive dedicate al tragico evento. Il bilancio di dodici morti richiede un’indagine rigorosa. Non sono sicuro che si riuscirà a farla, dati i precedenti di lungaggini, di errori nella rilevazione dei dati, del probabilismo della giustizia italiana. E quel comandante De Falco, della capitaneria dell’ isola del Giglio, che grida: “Vada a bordo, cazzo!”, perentorio e adirato, fatto diventare “eroe” dall’immaginario farraginoso di giornalisti e commentatori, è la testimonianza dal vivo che l’Italia ha bisogno di eroi e li va a trovare in coloro che fanno il proprio dovere, che svolgono il proprio lavoro rispettando le regole. E tuttavia, il presunto eroe del dovere normale (cosa che evidentemente in Italia non si è più abituati a fare, e perciò desta meraviglia e plauso colui che lo fa!), dovrà rispondere anche lui alle domande del magistrato: ma nessuno della Capitaneria si è accorto della rotta sbagliata della Costa Concordia? Le Capitanerie non svolgono un monitoraggio preventivo oppure che ci stanno a fare? Insomma, ce n’è per tutti: per il capitano Schettino che è passato per codardo perché non è rimasto sulla nave fino all’ultimo, e non si capisce perché, nonostante le spiegazioni che ha già dato nel primo interrogatorio; la Capitaneria per quello che già si è detto; la Costa Crociere, allertata subito dopo l’urto della nave, che ha aspettato più di un’ora per comunicare le prime decisioni. Il capitano Schettino dice di aver chiesto subito alla società di intervenire con elicotteri e di mandare una nave traghettatrice verso il porto. Se è vero, la maggiore colpa del disastro è della Società, che evidentemente avrebbe anteposto gli interessi economici alla necessità di evacuare la nave incagliata salvando le persone. Insomma, una tragedia all’italiana, come tante altre volte (Piazza Fontana, la strage di Bologna, l’Italicus, Ustica, eccetera, di cui non si sa la verità, e non si saprà mai, per gli occultamenti e depistaggi, e per i ritardi accumulati nel reperire indizi e materiali probatori). È l’Italia dei misteri, bellezza! È l’Italia che non diventa mai adulta. Commette errori e non sa e non vuole riparare i danni. Staremo a vedere se sulla Costa Concordia la magistratura saprà ricostruire una verità attendibile. Ora sembra che l’unica vera conseguenza di questa tragedia sarà l’abolizione del vituperato “inchino” nei confronti delle località di pregio, ai quali appunto finora si avvicinavano, navigando sottocosta, tutte le navi crociera. Bugie, malafede, prosopopea: e dietro questo, 12 morti, 22 dispersi, e circa quattromila passeggeri messi in salvo da chi non ne aveva obbligo (inservienti filippini o indiani, o chi altro) e abbandonati da chi aveva il dovere di assisterli. Una volta la vergogna avrebbe inseguito tutta la vita chi aveva tradito; oggi la vergogna non è più di casa in Italia (ma forse anche in tutto il mondo).

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Lutto nazionale con la morte di Vincenzo Consolo, lo scrittore siciliano di Sant’Agata Militello, amico di Leonardo Sciascia, residente a Milano. Il rapporto con la sua Sicilia, materiale e soprattutto intellettuale, è stato sempre solido e continuo. Il suo capolavoro è Il sorriso dell’ignoto marinaio. Tutti i giornali e i media hanno riportato questa notizia. Io ne parlo solo perché con lui aveva un rapporto d’amicizia. Anche se non ci vedevamo spesso, soprattutto negli ultimi tempi. L’avevo conosciuto nel 1972, quando gli ho fatto la prima intervista: ci incontrammo in un ristorante della zona di Brera, perché allora lui abitava in una via adiacente. Il colloquio era motivato dal fatto che nel giornale in cui lavoravo stavamo pubblicando una serie di medaglioni sui meridionali che con il loro lavoro stavano facendo grande Milano. Consolo era funzionario alla RAI e scrittore e aveva già pubblicato “La ferita dell’aprile” nel 1963, e proprio in quel mese di novembre erano usciti i primi due capitoli de “Il sorriso dell’ignoto marinaio” in una piccola ma elegante edizione numerata (con un’incisione di Guttuso) per opera di un libraio siciliano che aveva il chiosco in piazza san Fedele. Si chiama Manusè, ed era amico di Sciascia e di Consolo da lunga data. I due scrittori andavano spesso a rovistare tra i libri di Manusè (come del resto facevano con i “buchinisti” della Senna a Parigi, quando vi andavano), perché trovavano sempre qualche opera storica o letteraria di loro interesse. Insomma, la sicilianità e la cultura aveva unito tre personaggi tra loro lontani e molto vicini. Manusè non aveva la con oscenza degli altri due, ma sapeva scovare il libro più raro che gli chiedevi. Venni a sapere di questa rarissima edizione (ho la fortuna di averne una copia nella mia biblioteca, compresa l’incisione di Guttuso, molto bella) proprio da Leonardo Sciascia, un giorno che mi chiese di accompagnarlo al chiosco di Manusè. Per tornare alla cena con Consolo, gli feci molte domande su questo lavoro che stava per finire. Le sue risposte non furono molto esaurienti. Tuttavia quella notte nacque un’amicizia che non si è mai incrinata. Allora mi ha dato la definizione di Milano come “campo di lavoro”, per spiegare la chiusura di chi abita Milano, in quanto non ha tempo che per lavorare, soprattutto i pendolari che tra l’altro passano, tra andata e ritorno a casa, fino a quattro ore nei treni o negli autobus. Tengo a testimoniare questo rapporto amichevole, che mi ha arricchito, privo d’interessi, fondato solo sulla reciproca stima intellettuale. I suoi libri non sono facili. Richiedono un impegno mentale forte. La sua scrittura, che molti hanno definito per comodità “barocca”, è invece una scrittura composita, in cui glosse antiche abitano e consonano con quelle modernissime, le citazioni colte completano gli itinerari raziocinanti e anche filosofici. Pur lanciando al massimo la fantasia, Consolo ha sempre tuttavia ancorato il suo dire alla storia, ai documenti, tentando di sfatare contaminazioni e falsificazioni. Si è autodefinito “archeologo della lingua” per quella sua capacità di usare e mescolare diversi linguaggi elaborati dai documenti ma fatti rientrare in una partitura musicale, dando così dignità ritmica e musicale ad ogni materiale trovato e rimodellato.

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Voglio consigliare una lettura che mi sembra straordinaria. Si tratta del libro “Storia di Chiara e Francesco di Chiara Frugoni” (Einaudi, pagg.200, euro 18). Un racconto delle due vocazioni religiose nel mondo cattolico che più hanno “modificato” (rispetto alle degenerazioni) il modo di essere cristiani. Chiara Frugoni è una specialista di storia medievale che ha insegnato in Italia e all’estero. Ed ha scritto diversi libri su San Francesco e Santa Chiara. Questo racconto è la summa e anche la sintesi di tutti i suoi studi su questi due santi, in cui presenta biografie, vocazioni, le regole francescane della povertà assoluta e del servizio verso gli umili. Esamina altresì gli ostacoli frapposti da diversi Papi alla realizzazione dell’obbiettivo primario della povertà e del servizio esterno ai monasteri tra lebbrosi, emarginati, malati, mendicanti. I Papi pur approvando le motivazioni e le convinzioni di Francesco e Chiara di dar vita a comunità di “frati minori” e di “sorelle minori” aperti ad attività a sostegno dei più deboli nella società, tuttavia di fatto li hanno ostacolati, tentando di incanalarli nel monachesimo collaudato dei benedettini. Soprattutto difficoltoso è stato il cammino di Chiara nell’adottare le regole di Francesco di povertà e di apertura verso l’esterno con assistenze e predicazioni. La lunga resistenza e sofferenza dei due santi nell’affermare il principio fondativo della loro esperienza religiosa, che nasceva dalla letterale lettura dei Vangeli (Va’, lascia tutto quello che hai e seguimi), alla fine ha vinto su tutti gli ostacoli. Oggi tuttavia sembra che tutto sia stato capovolto nella realtà. Anche i francescani dispongono di proprietà e mezzi e si sono trasformati. L’insegnamento e l’esempio di Francesco e Chiara restano però validi e fondamentali per un ritorno ai valori fondanti del Cristianesimo. Il pregio di questo libro sta nella scrittura di Chiara Frugoni che, pur rispettando passo passo i documenti originali, quasi tutti in lingua “volgare” di non facile lettura, tuttavia è avvincente come un vero romanzo moderno. Senza forzature, Chiara Frugoni ci rende i due santi umani e innovatori, capaci di visioni internazionali, di avvicinamenti impossibili tra religioni e pensieri opposti. Insomma, ci fornisce le chiavi di lettura della continua modernità dei due apostoli della povertà evangelica.

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