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POTENZA – E’ stata condannata a 9 anni di reclusione, 5 per concussione e 4 per peculato, Albina Colella, professoressa di geologia dell’Università della Basilicata.
Così ha deciso ieri mattina il collegio del Tribunale di Potenza presieduto da Aldo Gubitosi.
Poco prima il pm Antonio Natale aveva chiesto che fosse giudicata colpevole di entrambi i reati, ma nel computo della pena da irrogare si era limitato a 8 anni.
Nella sua arringa il magistrato ha ripercorso i fatti contestati all’ex capo del dipartimento di geologia dell’ateneo lucano, per cui nel 2004 era già finita agli arresti domiciliari.
Al centro c’era un progetto di ricerca sulle risorse idriche in Val d’Agri, finanziato dalla Regione con fondi europei. Soldi destinati in gran parte al lavoro di alcuni ricercatori, che però sarebbero stati costretti a «restituire» parte dei loro compensi – circa cento milioni di lire in totale – alla professoressa.
Secondo l’accusa si sarebbe trattati «un vero e proprio taglieggiamento» nei confronti dei ricercatori prevaricati sfruttando le loro aspirazioni a una carriera accademica.
«Mettetevi nelle condizioni di questi giovanissimi geologi». Ha chiesto il pm rivolto ai giudici del collegio. «Si sono appena laureati, si affaccia la possibilità di iniziare una carriera accademica e sono costretti a subire un’imposizione del genere. E’ chiaro che la possibilità di un eventuale prosieguo della ricerca e dell’avvio di una carriera universitaria sarebbero state precluse se si fossero opposti alla richiesta della professoressa». Quindi ha citato alcune delle deposizioni in aula in cui i diretti interessati hanno confermato l’accaduto.
I giudici non hanno creduto alla difesa della Colella, per cui quei soldi sarebbero serviti per il prosieguo del progetto e il compenso, “in nero”, percepito da altri docenti “aggregati” nella ricerca, senza la necessaria documentazione fiscale.
La professoressa si era difesa, in aula, spiegando di non essersi impossessata del denaro, e indicando i nomi dei colleghi coinvolti a cui avrebbe ne versato gran parte per la loro collaborazione. Ma l’unico tra questi ancora in vita, una volta seduto sul banco dei testimoni, l’ha smentita, dichiarando di aver collaborato per un esclusivo «interesse scientifico». Per questo il pm ha parlato di una «emerita montagna di baggianate» e di «scuse incredibili», come quando la professoressa ha sostenuto che le ricevute per le spese del prosieguo del progetto di ricerca, sostenute proprio con i soldi versati «volontariamente» dai ricercatori, fossero sparite in maniera misteriosa durante il trasloco del suo ufficio all’interno dell’università.
Il Tribunale ha condannato la docente Unibas anche per essersi appropriata di un gommone dell’ateneo che nel 2004 venne sequestrato in un rimessaggio di Carovigno.
«Considerato l’oggetto del progetto di ricerca – ha ironizzato Natale – forse sarebbe stato più giustificato l’uso di un piccolo sommergibile invece del gommone. Fatto sta che tra i testi sentiti c’è chi ha affermato che comunque non è mai stato utilizzato».
A nulla è valsa, anche su questo, la difesa della professoressa, che ha portato in aula un vicino di casa e il titolare del rimessaggio. Convinti, entrambi, che il gommone venisse utilizzato soltanto per scopi scientifici».
L’ex capo del dipartimento di geologia dell’Unibas è stata condannata anche al pagamento delle spese processuali, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, al risarcimento alla Regione e a uno dei ricercatori vessati, l’unico ad essersi costituito come parte civile, dei danni e di 4.500 euro di spese legali.
l.amato@luedi.it

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