X
<
>

Condividi:
4 minuti per la lettura

POTENZA – Ha difeso la memoria del fratello, ieri mattina a Palermo, il senatore Tito Di Maggio, sentito come testimone nel processo sulla trattativa tra lo Stato e la mafia all’epoca delle stragi.

Di Maggio non ha risparmiato accenti polemici anche nei confronti del pm Nino Di Matteo, che aveva ipotizzato un suo ruolo attivo nella revoca “ministeriale” del 41bis per oltre 300 detenuti, a novembre del 1993. Proprio il provvedimento che secondo il teorema dell’accusa avrebbe rappresentato la resa delle istituzioni ai boss di “cosa nostra”, mentre l’Italia era scossa dagli attentati in Sicilia, e dalle bombe esplose tra Milano, Roma e Firenze.

«Bastava prendere fascicolo personale di Francesco Di Maggio per capire il livello e la qualifica della persona, che avete ampiamente disonorato in tutte le trasmissioni televisive a cui avete partecipato».

Così il fratello minore, Tito, si è rivolto a Di Matteo, spiegando perché a luglio del 2012 ha deciso di chiamare il Corriere della sera per replicare alle notizie sull’indagine palermitana.

«Credevo che per voi, anche perché appartenenti alla stessa categoria, sarebbe stato semplice capire e acquisire degli atti pubblici. Ma mi sono dovuto ricredere».

Francesco Di Maggio, più grande di 12 anni di Tito, era un magistrato che aveva prestato servizio a lungo a Milano nell’antimafia, e nel 1993 era stato nominato numero 2 del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Un pm con un profilo spiccato, tanto che un anno prima, quando era ancora al lavoro per l’Onu a Vienna, sarebbe stato convocato a Roma dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.

Il senatore ha raccontato che all’epoca serviva qualcuno che sondasse con la procura meneghina la possibilità di una soluzione politica allo scandalo Tangentopoli. E quel qualcuno sarebbe stato individuato nella persona di Di Maggio, che era ancora di casa in quegli uffici. Anche se alla fine quel tentativo non avrebbe portato a nulla.

Di fronte ai giudici della Corte d’assise, l’imprenditore siciliano, ormai da anni residente a Matera, ha svelato che l’investitura morale di Francesco ai vertici dell’amministrazione penitenziaria sarebbe arrivata da Giovanni Falcone. Proprio il 23 maggio del 1992, qualche ora prima della bomba sull’autostrada tra Palermo e Punta Raisi.

«Mi raccontò, potete immaginare con che stato d’animo, che si erano visti all’aeroporto di Roma». Ha aggiunto il senatore, che è anche membro della Commissione bicamerale antimafia. «Uno partiva per Vienna e l’altro per Palermo. Così Falcone gli disse che doveva occuparsi delle carceri. A quei tempi le maglie dell’amministrazione penitenziaria erano talmente larghe che, facendosi spostare da un ospedale all’altro, c’erano esponenti delle organizzazioni malavitose che continuavano a gestire il loro potere. Per questo Falcone immaginava che avendo mio fratello la reputazione di un giudice intransigente e rigido potesse andare in quel ruolo, per stringerle quelle maglie».

In realtà, una volta arrivato al Dap, Francesco Di Maggio si sarebbe trovato di fronte a una serie di difficoltà. A cominciare dal rapporto col direttore Adalberto Capriotti.

«Lamentava questa impalpabilità della funzione di Capriotti, che credo fosse stato mandato lì giusto per arrivare alla pensione, e non prendeva nessun provvedimento. Salvo agire in relazione a determinate cose che riguardavano “il palazzo”. Allora era sempre presente».

Questo il ricordo del fratello minore, con cui l’allora vice di Capriotti si sarebbe confidato spesso, fino alla sua morte improvvisa nel 1996.
«C’erano contrasti in ufficio sul 41bis – ha proseguito il senatore – e una disparità vedute, verso la fine dell’anno, quando andavano ratificati sempre dei 41bis, di cui lui non aveva avuto cognizione (…) E’ stata una decisione presa senza che ne fosse messo a conoscenza, e uno dei motivi di tensione col ministro della Giustizia Conso, che lo porteranno a minacciare le dimissioni».
Capriotti a un certo punto avrebbe esautorato del tutto Di Maggio dalla gestione del 41bis, preferendogli Andrea Calabria, un altro dirigente del Dap. Quindi i contrasti si sarebbero ulteriormente acuiti.

«Era teso e si sentiva impotente rispetto alle questioni esistenti e mi disse che stavano facendo “una cazzata” e lui non voleva esserne complice. Me lo disse papale papale: “Io non posso essere complice nella mancata proroga del 41bis”».

Dopo l’intervista sul Corriere della sera Tito Di Maggio ha consegnato ai magistrati di Palermo anche un manoscritto senza data di suo fratello indirizzato a Capriotti in cui si lamentava della «vicenda Calabria». Un manoscritto, con l’aggiunta «41bis», che il senatore ha detto di aver trovato così, rimettendo a posto le carte sulla scrivania del fratello dopo la sua morte, e ieri è stato ammesso nel fascicolo del dibattimento.

Nonostante il presidente della Corte abbia evidenziato una certa difformità nella grafia.

«Lui si stava adoperando per il mantenimento 41bis e mi raccontò di essere stato deriso da colleghi che prestavano servizio in un altro ministero». Ha insistito il senatore.

«Credeva che ci fossero connessioni tra le aspettative sul regime carcerario e le stragi. In particolare il 41bis».

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE