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36 minuti per la lettura

 

di SARA LORUSSO
Quando Ernesto Belisario ha cominciato a occuparsi di diritto delle nuove tecnologie, attraversare certi spazi semantici significava fare innovazione. Oggi è uno dei maggiori esperti del settore in Italia, consulente di amministrazioni pubbliche, governi, privati. Potentino, sempre in giro a raccontare di open data, a spiegare al pubblico che la trasparenza è un vantaggio collettivo. Animo da divulgatore, in rete come @diritto2punto0, anche alla sua terra guarda con lo guardo critico di chi lavora per cambiare le cose ogni giorno. In qualunque posto del mondo ci si trov. «Almeno provarci». Per questo racconta, incontra, spiega. Di trasparenza e democrazia. E di un metodo che porta alla partecipazione. 
Cominciamo dalla premessa: che cosa sono gli open data e perchè sono così importanti?
«Lavorare sugli open data significa avere elementi per capire quello che succede, per comprendere dei fenomeni, che si tratti dell’andamento di un’impresa, dell’inquinamento di un’area o dell’attività di un’amministrazione.  Sono tutte cose che succedono sotto i nostri occhi, ma che spesso non riusciamo a mettere bene a fuoco, almeno come cittadini.»
Altri, invece, ci riescono? 
«C’è chi conosce e detiene queste informazioni: si tratta spesso si persone che hanno costruito posizioni di potere.»
E qui cominciamo a parlare di trasparenza.
«Se cominciamo a praticare la trasparenza come una possibilità per tutti di avere accesso ai dati senza limitazioni,  la prima conseguenza tocca quelle posizioni: vengono scardinate.»
Qual è il settore dove c’è più urgenza di trasparenza?
«Secondo un’indagine, potendo scegliere, la cittadinanza vorrebbe conoscere prima i dati sulla spesa pubblica, poi quelli sulla salute generale, infine sulla criminalità. In questo ordine. Ora, se i bilanci delle amministrazioni sono già pubblici, vuol dire allora che queste informazioni non sono accessibili, che non sono comprensibili alla cittadinanza. È un po’ come la storia di Dioniso di Siracusa che affiggeva le leggi su mura alte sei metri e si divertiva a punire i cittadini inadempienti. “Eh ma io ho reso pubbliche le leggi”, salvo averle rese anche incomprensibili.»
Discutendo di open data riceverà parecchie obiezioni in giro.
«Una delle cose che mi sento ripetere  spesso è che i cittadini non saprebbero orientarsi tra tutte queste informazioni. Io credo che posto così il problema sia sbagliato. Invece di aver timore, mettiamo i cittadini in condizione di comprenderli. Entra qui in gioco quella che chiamiamo data literacy, la cultura dei dati.»
Dato l’accesso ai dati della pubblica amministrazione, che cosa dovrebbe accadere?
«Vale la legge di Linus: più gente guarda, più è facile che gli errori vengano scoperti, più è probabile imbattersi in qualcuno capace di risolverli.  Restando ancorati alla metafora del software, l’amministrazione pubblica può presentare tre bug: l’errore umano, la corruzione, le frodi. Più è ampia la platea che ha accesso, più è facile poter cambiare.» 
Ancora un’obiezione diffusa: non è facile rendere produttivi i processi di apertura dei dati.
«Non credo dobbiamo affrontare il tema degli open data con una sorta di ansia da prestazione. In realtà, già la semplice consapevolezza  della pubblicità tende a modificare i comportamenti.»
E c’è poi la contestazione sulla spesa.
«È vero, la trasparenza costa, ma anche questo è un falso problema. O meglio, dipende dal punto di vista. Il sistema del Foia (la legge sulla libertà di informazione che in USA permette ai cittadini di sapere come opera il governo attraverso una serie di regole a cui devono attenersi le amministrazioni, ndr) costa 5 dollari ad americano ogni anno. In Italia la corruzione costa 1.000 euro pro capite. Investendo in trasparenza forse non cancelleremmo tutta quella spesa, ma forse risparmieremmo un bel po’».
Basta la trasparenza a cambiare in meglio la relazione cittadino-amministrazione?
«La trasparenza delegata al voyeurismo non mi interessa. Né può funzionare una trasparenza fine a se stessa. Funziona invece se aiuta a comprendere e partecipare. Se il cittadino finalmente ottiene i dati che testimoniano la corruzione, ma poi non può incidere nel cambiare le cose, la frattura  tra società e rappresentanza aumenterà.» 
Quindi siamo al pezzo successivo del sistema, la partecipazione
«La trasparenza deve essere strumentale alla partecipazione. Altrimenti diventa  controproducente. Se un cittadino accetta di partecipare a un progetto, investendo tempo, risorse, entusiasmo, ma vede che poi nulla cambia, non risponderà al secondo invito.» 
C’è anche una geografia della trasparenza?
«C’è una questione meridionale degli open data. Salvo piccole esperienze tra Puglia e Sicilia, il lavoro sui dati è tutto concentrato tra centro e nord. Questa cartina è indice di arretratezza, ma anche di distrazione: quante amministrazioni dicono “abbiamo cose più importanti a cui pensare”? Eppure l’accesso ai dati non è un’esigenza minore proprio perché sviluppa altri meccanismi di crescita.» 
In questo Mezzogiorno alle prese con i dati, come sta la Basilicata?
«La Basilicata è nella media di un Mezzogiorno che questi dati li ha trascurati. Se ne comincia a parlare ora, anche per la campagna di Matera 2019 a capitale europea della cultura. Forse quello che è successo in regione potrebbe accelerare certi ragionamenti.»
Le inchieste giudiziarie sui rimborsi gonfiati in consiglio regionale hanno fatto emergere anche in Basilicata meccanismi sotterranei della spesa pubblica.
«La verità è la trasparenza è un fattore di giustizia anche per chi non ha nulla da nascondere. Se non si consente di guardare, semplicemente si incentiva il luogo comune.  In questo processo rientra anche il controllo sulle amministrazioni che devo essere adempienti rispetto alla trasparenza. Ci sono due categorie che possono esercitare questo ruolo, in modo complementare: giornalisti e cittadini. Ai primi spetta anche un compito didattico. Il cittadino ha un compito duro: essere un rompiscatole è più difficile che essere un suddito.»
E se tutti fossimo un po’ più rompiscatole?
«Il primo effetto potrebbe essere lo slittamento di una certa conoscenza dalla cronaca giudiziaria a quella di tutti i giorni: non dovremmo arrivare a ottenere i dati pubblici perché c’è un’inchiesta della magistratura, ma piuttosto perché c’è una tensione civica della comunità che vuole sapere». 
È questa la spinta dal basso?
«Adesso, con le ultime inchieste, ci siamo concentrati su quello che accade in Regione. E le altre amministrazioni?  Se la rappresentanza capisce che, al di là della imposizione normativa, non c’è interesse, che le persone votano a prescindere dalla trasparenza, non cambia nulla.»
Magari diventa un tema da campagna elettorale.
«Sì, magari. Tutti ne parlano. In linea di principio tutti la vogliono. Vediamo che cosa accadrà, cominciamo per esempio dal tema del finanziamento in campagna elettorale per poi andare oltre. La trasparenza, in fondo, è un medoto.»
s.lorusso@di SARA LORUSSO

 

Quando Ernestodi SARA LORUSSOdi SARA LORUSSO
Quando Ernesto Belisario ha cominciato a occuparsi di diritto delle nuove tecnologie, attraversare certi spazi semantici significava fare innovazione. Oggi è uno dei maggiori esperti del settore in Italia, consulente di amministrazioni pubbliche, governi, privati. Potentino, sempre in giro a raccontare di open data, a spiegare al pubblico che la trasparenza è un vantaggio collettivo. Animo da divulgatore, in rete come @diritto2punto0, anche alla sua terra guarda con lo guardo critico di chi lavora per cambiare le cose ogni giorno. In qualunque posto del mondo ci si trov. «Almeno provarci». Per questo racconta, incontra, spiega. Di trasparenza e democrazia. E di un metodo che porta alla partecipazione. 
Cominciamo dalla premessa: che cosa sono gli open data e perchè sono così importanti?
«Lavorare sugli open data significa avere elementi per capire quello che succede, per comprendere dei fenomeni, che si tratti dell’andamento di un’impresa, dell’inquinamento di un’area o dell’attività di un’amministrazione.  Sono tutte cose che succedono sotto i nostri occhi, ma che spesso non riusciamo a mettere bene a fuoco, almeno come cittadini.»
Altri, invece, ci riescono? 
«C’è chi conosce e detiene queste informazioni: si tratta spesso si persone che hanno costruito posizioni di potere.»
E qui cominciamo a parlare di trasparenza.
«Se cominciamo a praticare la trasparenza come una possibilità per tutti di avere accesso ai dati senza limitazioni,  la prima conseguenza tocca quelle posizioni: vengono scardinate.»
Qual è il settore dove c’è più urgenza di trasparenza?
«Secondo un’indagine, potendo scegliere, la cittadinanza vorrebbe conoscere prima i dati sulla spesa pubblica, poi quelli sulla salute generale, infine sulla criminalità. In questo ordine. Ora, se i bilanci delle amministrazioni sono già pubblici, vuol dire allora che queste informazioni non sono accessibili, che non sono comprensibili alla cittadinanza. È un po’ come la storia di Dioniso di Siracusa che affiggeva le leggi su mura alte sei metri e si divertiva a punire i cittadini inadempienti. “Eh ma io ho reso pubbliche le leggi”, salvo averle rese anche incomprensibili.»
Discutendo di open data riceverà parecchie obiezioni in giro.
«Una delle cose che mi sento ripetere  spesso è che i cittadini non saprebbero orientarsi tra tutte queste informazioni. Io credo che posto così il problema sia sbagliato. Invece di aver timore, mettiamo i cittadini in condizione di comprenderli. Entra qui in gioco quella che chiamiamo data literacy, la cultura dei dati.»
Dato l’accesso ai dati della pubblica amministrazione, che cosa dovrebbe accadere?
«Vale la legge di Linus: più gente guarda, più è facile che gli errori vengano scoperti, più è probabile imbattersi in qualcuno capace di risolverli.  Restando ancorati alla metafora del software, l’amministrazione pubblica può presentare tre bug: l’errore umano, la corruzione, le frodi. Più è ampia la platea che ha accesso, più è facile poter cambiare.» 
Ancora un’obiezione diffusa: non è facile rendere produttivi i processi di apertura dei dati.
«Non credo dobbiamo affrontare il tema degli open data con una sorta di ansia da prestazione. In realtà, già la semplice consapevolezza  della pubblicità tende a modificare i comportamenti.»
E c’è poi la contestazione sulla spesa.
«È vero, la trasparenza costa, ma anche questo è un falso problema. O meglio, dipende dal punto di vista. Il sistema del Foia (la legge sulla libertà di informazione che in USA permette ai cittadini di sapere come opera il governo attraverso una serie di regole a cui devono attenersi le amministrazioni, ndr) costa 5 dollari ad americano ogni anno. In Italia la corruzione costa 1.000 euro pro capite. Investendo in trasparenza forse non cancelleremmo tutta quella spesa, ma forse risparmieremmo un bel po’».
Basta la trasparenza a cambiare in meglio la relazione cittadino-amministrazione?
«La trasparenza delegata al voyeurismo non mi interessa. Né può funzionare una trasparenza fine a se stessa. Funziona invece se aiuta a comprendere e partecipare. Se il cittadino finalmente ottiene i dati che testimoniano la corruzione, ma poi non può incidere nel cambiare le cose, la frattura  tra società e rappresentanza aumenterà.» 
Quindi siamo al pezzo successivo del sistema, la partecipazione
«La trasparenza deve essere strumentale alla partecipazione. Altrimenti diventa  controproducente. Se un cittadino accetta di partecipare a un progetto, investendo tempo, risorse, entusiasmo, ma vede che poi nulla cambia, non risponderà al secondo invito.» 
C’è anche una geografia della trasparenza?
«C’è una questione meridionale degli open data. Salvo piccole esperienze tra Puglia e Sicilia, il lavoro sui dati è tutto concentrato tra centro e nord. Questa cartina è indice di arretratezza, ma anche di distrazione: quante amministrazioni dicono “abbiamo cose più importanti a cui pensare”? Eppure l’accesso ai dati non è un’esigenza minore proprio perché sviluppa altri meccanismi di crescita.» 
In questo Mezzogiorno alle prese con i dati, come sta la Basilicata?
«La Basilicata è nella media di un Mezzogiorno che questi dati li ha trascurati. Se ne comincia a parlare ora, anche per la campagna di Matera 2019 a capitale europea della cultura. Forse quello che è successo in regione potrebbe accelerare certi ragionamenti.»
Le inchieste giudiziarie sui rimborsi gonfiati in consiglio regionale hanno fatto emergere anche in Basilicata meccanismi sotterranei della spesa pubblica.
«La verità è la trasparenza è un fattore di giustizia anche per chi non ha nulla da nascondere. Se non si consente di guardare, semplicemente si incentiva il luogo comune.  In questo processo rientra anche il controllo sulle amministrazioni che devo essere adempienti rispetto alla trasparenza. Ci sono due categorie che possono esercitare questo ruolo, in modo complementare: giornalisti e cittadini. Ai primi spetta anche un compito didattico. Il cittadino ha un compito duro: essere un rompiscatole è più difficile che essere un suddito.»
E se tutti fossimo un po’ più rompiscatole?
«Il primo effetto potrebbe essere lo slittamento di una certa conoscenza dalla cronaca giudiziaria a quella di tutti i giorni: non dovremmo arrivare a ottenere i dati pubblici perché c’è un’inchiesta della magistratura, ma piuttosto perché c’è una tensione civica della comunità che vuole sapere». 
È questa la spinta dal basso?
«Adesso, con le ultime inchieste, ci siamo concentrati su quello che accade in Regione. E le altre amministrazioni?  Se la rappresentanza capisce che, al di là della imposizione normativa, non c’è interesse, che le persone votano a prescindere dalla trasparenza, non cambia nulla.»
Magari diventa un tema da campagna elettorale.
«Sì, magari. Tutti ne parlano. In linea di principio tutti la vogliono. Vediamo che cosa accadrà, cominciamo per esempio dal tema del finanziamento in campagna elettorale per poi andare oltre. La trasparenza, in fondo, è un medoto.»
s.lorusso@luedi.it
Quando Ernesto Belisario ha cominciato a occuparsi di diritto delle nuove tecnologie, attraversare certi spazi semantici significava fare innovazione. Oggi è uno dei maggiori esperti del settore in Italia, consulente di amministrazioni pubbliche, governi, privati. Potentino, sempre in giro a raccontare di open data, a spiegare al pubblico che la trasparenza è un vantaggio collettivo. Animo da divulgatore, in rete come @diritto2punto0, anche alla sua terra guarda con lo guardo critico di chi lavora per cambiare le cose ogni giorno. In qualunque posto del mondo ci si trov. «Almeno provarci». Per questo racconta, incontra, spiega. Di trasparenza e democrazia. E di un metodo che porta alla partecipazione. 
Cominciamo dalla premessa: che cosa sono gli open data e perchè sono così importanti?
«Lavorare sugli open data significa avere elementi per capire quello che succede, per comprendere dei fenomeni, che si tratti dell’andamento di un’impresa, dell’inquinamento di un’area o dell’attività di un’amministrazione.  Sono tutte cose che succedono sotto i nostri occhi, ma che spesso non riusciamo a mettere bene a fuoco, almeno come cittadini.»
Altri, invece, ci riescono? 
«C’è chi conosce e detiene queste informazioni: si tratta spesso si persone che hanno costruito posizioni di potere.»
E qui cominciamo a parlare di trasparenza.
«Se cominciamo a praticare la trasparenza come una possibilità per tutti di avere accesso ai dati senza limitazioni,  la prima conseguenza tocca quelle posizioni: vengono scardinate.»
Qual è il settore dove c’è più urgenza di trasparenza?
«Secondo un’indagine, potendo scegliere, la cittadinanza vorrebbe conoscere prima i dati sulla spesa pubblica, poi quelli sulla salute generale, infine sulla criminalità. In questo ordine. Ora, se i bilanci delle amministrazioni sono già pubblici, vuol dire allora che queste informazioni non sono accessibili, che non sono comprensibili alla cittadinanza. È un po’ come la storia di Dioniso di Siracusa che affiggeva le leggi su mura alte sei metri e si divertiva a punire i cittadini inadempienti. “Eh ma io ho reso pubbliche le leggi”, salvo averle rese anche incomprensibili.»
Discutendo di open data riceverà parecchie obiezioni in giro.
«Una delle cose che mi sento ripetere  spesso è che i cittadini non saprebbero orientarsi tra tutte queste informazioni. Io credo che posto così il problema sia sbagliato. Invece di aver timore, mettiamo i cittadini in condizione di comprenderli. Entra qui in gioco quella che chiamiamo data literacy, la cultura dei dati.»
Dato l’accesso ai dati della pubblica amministrazione, che cosa dovrebbe accadere?
«Vale la legge di Linus: più gente guarda, più è facile che gli errori vengano scoperti, più è probabile imbattersi in qualcuno capace di risolverli.  Restando ancorati alla metafora del software, l’amministrazione pubblica può presentare tre bug: l’errore umano, la corruzione, le frodi. Più è ampia la platea che ha accesso, più è facile poter cambiare.» 
Ancora un’obiezione diffusa: non è facile rendere produttivi i processi di apertura dei dati.
«Non credo dobbiamo affrontare il tema degli open data con una sorta di ansia da prestazione. In realtà, già la semplice consapevolezza  della pubblicità tende a modificare i comportamenti.»
E c’è poi la contestazione sulla spesa.
«È vero, la trasparenza costa, ma anche questo è un falso problema. O meglio, dipende dal punto di vista. Il sistema del Foia (la legge sulla libertà di informazione che in USA permette ai cittadini di sapere come opera il governo attraverso una serie di regole a cui devono attenersi le amministrazioni, ndr) costa 5 dollari ad americano ogni anno. In Italia la corruzione costa 1.000 euro pro capite. Investendo in trasparenza forse non cancelleremmo tutta quella spesa, ma forse risparmieremmo un bel po’».
Basta la trasparenza a cambiare in meglio la relazione cittadino-amministrazione?
«La trasparenza delegata al voyeurismo non mi interessa. Né può funzionare una trasparenza fine a se stessa. Funziona invece se aiuta a comprendere e partecipare. Se il cittadino finalmente ottiene i dati che testimoniano la corruzione, ma poi non può incidere nel cambiare le cose, la frattura  tra società e rappresentanza aumenterà.» 
Quindi siamo al pezzo successivo del sistema, la partecipazione
«La trasparenza deve essere strumentale alla partecipazione. Altrimenti diventa  controproducente. Se un cittadino accetta di partecipare a un progetto, investendo tempo, risorse, entusiasmo, ma vede che poi nulla cambia, non risponderà al secondo invito.» 
C’è anche una geografia della trasparenza?
«C’è una questione meridionale degli open data. Salvo piccole esperienze tra Puglia e Sicilia, il lavoro sui dati è tutto concentrato tra centro e nord. Questa cartina è indice di arretratezza, ma anche di distrazione: quante amministrazioni dicono “abbiamo cose più importanti a cui pensare”? Eppure l’accesso ai dati non è un’esigenza minore proprio perché sviluppa altri meccanismi di crescita.» 
In questo Mezzogiorno alle prese con i dati, come sta la Basilicata?
«La Basilicata è nella media di un Mezzogiorno che questi dati li ha trascurati. Se ne comincia a parlare ora, anche per la campagna di Matera 2019 a capitale europea della cultura. Forse quello che è successo in regione potrebbe accelerare certi ragionamenti.»
Le inchieste giudiziarie sui rimborsi gonfiati in consiglio regionale hanno fatto emergere anche in Basilicata meccanismi sotterranei della spesa pubblica.
«La verità è la trasparenza è un fattore di giustizia anche per chi non ha nulla da nascondere. Se non si consente di guardare, semplicemente si incentiva il luogo comune.  In questo processo rientra anche il controllo sulle amministrazioni che devo essere adempienti rispetto alla trasparenza. Ci sono due categorie che possono esercitare questo ruolo, in modo complementare: giornalisti e cittadini. Ai primi spetta anche un compito didattico. Il cittadino ha un compito duro: essere un rompiscatole è più difficile che essere un suddito.»
E se tutti fossimo un po’ più rompiscatole?
«Il primo effetto potrebbe essere lo slittamento di una certa conoscenza dalla cronaca giudiziaria a quella di tutti i giorni: non dovremmo arrivare a ottenere i dati pubblici perché c’è un’inchiesta della magistratura, ma piuttosto perché c’è una tensione civica della comunità che vuole sapere.»
È questa la spinta dal basso?
«Adesso, con le ultime inchieste, ci siamo concentrati su quello che accade in Regione. E le altre amministrazioni?  Se la rappresentanza capisce che, al di là della imposizione normativa, non c’è interesse, che le persone votano a prescindere dalla trasparenza, non cambia nulla.»
Magari diventa un tema da campagna elettorale.
«Sì, magari. Tutti ne parlano. In linea di principio tutti la vogliono. Vediamo che cosa accadrà, cominciamo per esempio dal tema del finanziamento in campagna elettorale per poi andare oltre. La trasparenza, in fondo, è un metodo.»
s.lorusso@luedi.it
Quando Ernesto Belisario ha cominciato a occuparsi di diritto delle nuove tecnologie, attraversare certi spazi semantici significava fare innovazione. Oggi è uno dei maggiori esperti del settore in Italia, consulente di amministrazioni pubbliche, governi, privati. Potentino, sempre in giro a raccontare di open data, a spiegare al pubblico che la trasparenza è un vantaggio collettivo. Animo da divulgatore, in rete come @diritto2punto0, anche alla sua terra guarda con lo guardo critico di chi lavora per cambiare le cose ogni giorno. In qualunque posto del mondo ci si trov. «Almeno provarci». Per questo racconta, incontra, spiega. Di trasparenza e democrazia. E di un metodo che porta alla partecipazione. 
Cominciamo dalla premessa: che cosa sono gli open data e perchè sono così importanti?
«Lavorare sugli open data significa avere elementi per capire quello che succede, per comprendere dei fenomeni, che si tratti dell’andamento di un’impresa, dell’inquinamento di un’area o dell’attività di un’amministrazione.  Sono tutte cose che succedono sotto i nostri occhi, ma che spesso non riusciamo a mettere bene a fuoco, almeno come cittadini.»
Altri, invece, ci riescono? 
«C’è chi conosce e detiene queste informazioni: si tratta spesso si persone che hanno costruito posizioni di potere.»
E qui cominciamo a parlare di trasparenza.
«Se cominciamo a praticare la trasparenza come una possibilità per tutti di avere accesso ai dati senza limitazioni,  la prima conseguenza tocca quelle posizioni: vengono scardinate.»
Qual è il settore dove c’è più urgenza di trasparenza?
«Secondo un’indagine, potendo scegliere, la cittadinanza vorrebbe conoscere prima i dati sulla spesa pubblica, poi quelli sulla salute generale, infine sulla criminalità. In questo ordine. Ora, se i bilanci delle amministrazioni sono già pubblici, vuol dire allora che queste informazioni non sono accessibili, che non sono comprensibili alla cittadinanza. È un po’ come la storia di Dioniso di Siracusa che affiggeva le leggi su mura alte sei metri e si divertiva a punire i cittadini inadempienti. “Eh ma io ho reso pubbliche le leggi”, salvo averle rese anche incomprensibili.»
Discutendo di open data riceverà parecchie obiezioni in giro.
«Una delle cose che mi sento ripetere  spesso è che i cittadini non saprebbero orientarsi tra tutte queste informazioni. Io credo che posto così il problema sia sbagliato. Invece di aver timore, mettiamo i cittadini in condizione di comprenderli. Entra qui in gioco quella che chiamiamo data literacy, la cultura dei dati.»
Dato l’accesso ai dati della pubblica amministrazione, che cosa dovrebbe accadere?
«Vale la legge di Linus: più gente guarda, più è facile che gli errori vengano scoperti, più è probabile imbattersi in qualcuno capace di risolverli.  Restando ancorati alla metafora del software, l’amministrazione pubblica può presentare tre bug: l’errore umano, la corruzione, le frodi. Più è ampia la platea che ha accesso, più è facile poter cambiare.» 
Ancora un’obiezione diffusa: non è facile rendere produttivi i processi di apertura dei dati.
«Non credo dobbiamo affrontare il tema degli open data con una sorta di ansia da prestazione. In realtà, già la semplice consapevolezza  della pubblicità tende a modificare i comportamenti.»
E c’è poi la contestazione sulla spesa.
«È vero, la trasparenza costa, ma anche questo è un falso problema. O meglio, dipende dal punto di vista. Il sistema del Foia (la legge sulla libertà di informazione che in USA permette ai cittadini di sapere come opera il governo attraverso una serie di regole a cui devono attenersi le amministrazioni, ndr) costa 5 dollari ad americano ogni anno. In Italia la corruzione costa 1.000 euro pro capite. Investendo in trasparenza forse non cancelleremmo tutta quella spesa, ma forse risparmieremmo un bel po’».
Basta la trasparenza a cambiare in meglio la relazione cittadino-amministrazione?
«La trasparenza delegata al voyeurismo non mi interessa. Né può funzionare una trasparenza fine a se stessa. Funziona invece se aiuta a comprendere e partecipare. Se il cittadino finalmente ottiene i dati che testimoniano la corruzione, ma poi non può incidere nel cambiare le cose, la frattura  tra società e rappresentanza aumenterà.» 
Quindi siamo al pezzo successivo del sistema, la partecipazione
«La trasparenza deve essere strumentale alla partecipazione. Altrimenti diventa  controproducente. Se un cittadino accetta di partecipare a un progetto, investendo tempo, risorse, entusiasmo, ma vede che poi nulla cambia, non risponderà al secondo invito.» 
C’è anche una geografia della trasparenza?
«C’è una questione meridionale degli open data. Salvo piccole esperienze tra Puglia e Sicilia, il lavoro sui dati è tutto concentrato tra centro e nord. Questa cartina è indice di arretratezza, ma anche di distrazione: quante amministrazioni dicono “abbiamo cose più importanti a cui pensare”? Eppure l’accesso ai dati non è un’esigenza minore proprio perché sviluppa altri meccanismi di crescita.» 
In questo Mezzogiorno alle prese con i dati, come sta la Basilicata?
«La Basilicata è nella media di un Mezzogiorno che questi dati li ha trascurati. Se ne comincia a parlare ora, anche per la campagna di Matera 2019 a capitale europea della cultura. Forse quello che è successo in regione potrebbe accelerare certi ragionamenti.»
Le inchieste giudiziarie sui rimborsi gonfiati in consiglio regionale hanno fatto emergere anche in Basilicata meccanismi sotterranei della spesa pubblica.
«La verità è la trasparenza è un fattore di giustizia anche per chi non ha nulla da nascondere. Se non si consente di guardare, semplicemente si incentiva il luogo comune.  In questo processo rientra anche il controllo sulle amministrazioni che devo essere adempienti rispetto alla trasparenza. Ci sono due categorie che possono esercitare questo ruolo, in modo complementare: giornalisti e cittadini. Ai primi spetta anche un compito didattico. Il cittadino ha un compito duro: essere un rompiscatole è più difficile che essere un suddito.»
E se tutti fossimo un po’ più rompiscatole?
«Il primo effetto potrebbe essere lo slittamento di una certa conoscenza dalla cronaca giudiziaria a quella di tutti i giorni: non dovremmo arrivare a ottenere i dati pubblici perché c’è un’inchiesta della magistratura, ma piuttosto perché c’è una tensione civica della comunità che vuole sapere». 
È questa la spinta dal basso?
«Adesso, con le ultime inchieste, ci siamo concentrati su quello che accade in Regione. E le altre amministrazioni?  Se la rappresentanza capisce che, al di là della imposizione normativa, non c’è interesse, che le persone votano a prescindere dalla trasparenza, non cambia nulla.»
Magari diventa un tema da campagna elettorale.
«Sì, magari. Tutti ne parlano. In linea di principio tutti la vogliono. Vediamo che cosa accadrà, cominciamo per esempio dal tema del finanziamento in campagna elettorale per poi andare oltre. La trasparenza, in fondo, è un medoto.»
s.lorusso@luedi.it
 Belisario ha cominciato a occuparsi di diritto delle nuove tecnologie, attraversare certi spazi semantici significava fare innovazione. Oggi è uno dei maggiori esperti del settore in Italia, consulente di amministrazioni pubbliche, governi, privati. Potentino, sempre in giro a raccontare di open data, a spiegare al pubblico che la trasparenza è un vantaggio collettivo. Animo da divulgatore, in rete come @diritto2punto0, anche alla sua terra guarda con lo guardo critico di chi lavora per cambiare le cose ogni giorno. In qualunque posto del mondo ci si trov. «Almeno provarci». Per questo racconta, incontra, spiega. Di trasparenza e democrazia. E di un metodo che porta alla partecipazione. 
Cominciamo dalla premessa: che cosa sono gli open data e perchè sono così importanti?
«Lavorare sugli open data significa avere elementi per capire quello che succede, per comprendere dei fenomeni, che si tratti dell’andamento di un’impresa, dell’inquinamento di un’area o dell’attività di un’amministrazione.  Sono tutte cose che succedono sotto i nostri occhi, ma che spesso non riusciamo a mettere bene a fuoco, almeno come cittadini.»
Altri, invece, ci riescono? 
«C’è chi conosce e detiene queste informazioni: si tratta spesso si persone che hanno costruito posizioni di potere.»
E qui cominciamo a parlare di trasparenza.
«Se cominciamo a praticare la trasparenza come una possibilità per tutti di avere accesso ai dati senza limitazioni,  la prima conseguenza tocca quelle posizioni: vengono scardinate.»
Qual è il settore dove c’è più urgenza di trasparenza?
«Secondo un’indagine, potendo scegliere, la cittadinanza vorrebbe conoscere prima i dati sulla spesa pubblica, poi quelli sulla salute generale, infine sulla criminalità. In questo ordine. Ora, se i bilanci delle amministrazioni sono già pubblici, vuol dire allora che queste informazioni non sono accessibili, che non sono comprensibili alla cittadinanza. È un po’ come la storia di Dioniso di Siracusa che affiggeva le leggi su mura alte sei metri e si divertiva a punire i cittadini inadempienti. “Eh ma io ho reso pubbliche le leggi”, salvo averle rese anche incomprensibili.»
Discutendo di open data riceverà parecchie obiezioni in giro.
«Una delle cose che mi sento ripetere  spesso è che i cittadini non saprebbero orientarsi tra tutte queste informazioni. Io credo che posto così il problema sia sbagliato. Invece di aver timore, mettiamo i cittadini in condizione di comprenderli. Entra qui in gioco quella che chiamiamo data literacy, la cultura dei dati.»
Dato l’accesso ai dati della pubblica amministrazione, che cosa dovrebbe accadere?
«Vale la legge di Linus: più gente guarda, più è facile che gli errori vengano scoperti, più è probabile imbattersi in qualcuno capace di risolverli.  Restando ancorati alla metafora del software, l’amministrazione pubblica può presentare tre bug: l’errore umano, la corruzione, le frodi. Più è ampia la platea che ha accesso, più è facile poter cambiare.» 
Ancora un’obiezione diffusa: non è facile rendere produttivi i processi di apertura dei dati.
«Non credo dobbiamo affrontare il tema degli open data con una sorta di ansia da prestazione. In realtà, già la semplice consapevolezza  della pubblicità tende a modificare i comportamenti.»
E c’è poi la contestazione sulla spesa.
«È vero, la trasparenza costa, ma anche questo è un falso problema. O meglio, dipende dal punto di vista. Il sistema del Foia (la legge sulla libertà di informazione che in USA permette ai cittadini di sapere come opera il governo attraverso una serie di regole a cui devono attenersi le amministrazioni, ndr) costa 5 dollari ad americano ogni anno. In Italia la corruzione costa 1.000 euro pro capite. Investendo in trasparenza forse non cancelleremmo tutta quella spesa, ma forse risparmieremmo un bel po’».
Basta la trasparenza a cambiare in meglio la relazione cittadino-amministrazione?
«La trasparenza delegata al voyeurismo non mi interessa. Né può funzionare una trasparenza fine a se stessa. Funziona invece se aiuta a comprendere e partecipare. Se il cittadino finalmente ottiene i dati che testimoniano la corruzione, ma poi non può incidere nel cambiare le cose, la frattura  tra società e rappresentanza aumenterà.» 
Quindi siamo al pezzo successivo del sistema, la partecipazione
«La trasparenza deve essere strumentale alla partecipazione. Altrimenti diventa  controproducente. Se un cittadino accetta di partecipare a un progetto, investendo tempo, risorse, entusiasmo, ma vede che poi nulla cambia, non risponderà al secondo invito.» 
C’è anche una geografia della trasparenza?
«C’è una questione meridionale degli open data. Salvo piccole esperienze tra Puglia e Sicilia, il lavoro sui dati è tutto concentrato tra centro e nord. Questa cartina è indice di arretratezza, ma anche di distrazione: quante amministrazioni dicono “abbiamo cose più importanti a cui pensare”? Eppure l’accesso ai dati non è un’esigenza minore proprio perché sviluppa altri meccanismi di crescita.» 
In questo Mezzogiorno alle prese con i dati, come sta la Basilicata?
«La Basilicata è nella media di un Mezzogiorno che questi dati li ha trascurati. Se ne comincia a parlare ora, anche per la campagna di Matera 2019 a capitale europea della cultura. Forse quello che è successo in regione potrebbe accelerare certi ragionamenti.»
Le inchieste giudiziarie sui rimborsi gonfiati in consiglio regionale hanno fatto emergere anche in Basilicata meccanismi sotterranei della spesa pubblica.
«La verità è la trasparenza è un fattore di giustizia anche per chi non ha nulla da nascondere. Se non si consente di guardare, semplicemente si incentiva il luogo comune.  In questo processo rientra anche il controllo sulle amministrazioni che devo essere adempienti rispetto alla trasparenza. Ci sono due categorie che possono esercitare questo ruolo, in modo complementare: giornalisti e cittadini. Ai primi spetta anche un compito didattico. Il cittadino ha un compito duro: essere un rompiscatole è più difficile che essere un suddito.»
E se tutti fossimo un po’ più rompiscatole?
«Il primo effetto potrebbe essere lo slittamento di una certa conoscenza dalla cronaca giudiziaria a quella di tutti i giorni: non dovremmo arrivare a ottenere i dati pubblici perché c’è un’inchiesta della magistratura, ma piuttosto perché c’è una tensione civica della comunità che vuole sapere». 
È questa la spinta dal basso?
«Adesso, con le ultime inchieste, ci siamo concentrati su quello che accade in Regione. E le altre amministrazioni?  Se la rappresentanza capisce che, al di là della imposizione normativa, non c’è interesse, che le persone votano a prescindere dalla trasparenza, non cambia nulla.»
Magari diventa un tema da campagna elettorale.
«Sì, magari. Tutti ne parlano. In linea di principio tutti la vogliono. Vediamo che cosa accadrà, cominciamo per esempio dal tema del finanziamento in campagna elettorale per poi andare oltre. La trasparenza, in fondo, è un medoto.»
s.lorusso@luedi.it

 

Quando Ernesto Belisario ha cominciato a occuparsi di diritto delle nuove tecnologie, attraversare certi spazi semantici significava fare innovazione. Oggi è uno dei maggiori esperti del settore in Italia, consulente di amministrazioni pubbliche, governi, privati. Potentino, sempre in giro a raccontare di open data, a spiegare al pubblico che la trasparenza è un vantaggio collettivo. Animo da divulgatore, in rete come @diritto2punto0, anche alla sua terra guarda con lo guardo critico di chi lavora per cambiare le cose ogni giorno. In qualunque posto del mondo ci si trov. «Almeno provarci». Per questo racconta, incontra, spiega. Di trasparenza e democrazia. E di un metodo che porta alla partecipazione. Cominciamo dalla premessa: che cosa sono gli open data e perchè sono così importanti?«Lavorare sugli open data significa avere elementi per capire quello che succede, per comprendere dei fenomeni, che si tratti dell’andamento di un’impresa, dell’inquinamento di un’area o dell’attività di un’amministrazione.  Sono tutte cose che succedono sotto i nostri occhi, ma che spesso non riusciamo a mettere bene a fuoco, almeno come cittadini.»Altri, invece, ci riescono? «C’è chi conosce e detiene queste informazioni: si tratta spesso si persone che hanno costruito posizioni di potere.»E qui cominciamo a parlare di trasparenza.«Se cominciamo a praticare la trasparenza come una possibilità per tutti di avere accesso ai dati senza limitazioni,  la prima conseguenza tocca quelle posizioni: vengono scardinate.»Qual è il settore dove c’è più urgenza di trasparenza?«Secondo un’indagine, potendo scegliere, la cittadinanza vorrebbe conoscere prima i dati sulla spesa pubblica, poi quelli sulla salute generale, infine sulla criminalità. In questo ordine. Ora, se i bilanci delle amministrazioni sono già pubblici, vuol dire allora che queste informazioni non sono accessibili, che non sono comprensibili alla cittadinanza. È un po’ come la storia di Dioniso di Siracusa che affiggeva le leggi su mura alte sei metri e si divertiva a punire i cittadini inadempienti. “Eh ma io ho reso pubbliche le leggi”, salvo averle rese anche incomprensibili.»Discutendo di open data riceverà parecchie obiezioni in giro.«Una delle cose che mi sento ripetere  spesso è che i cittadini non saprebbero orientarsi tra tutte queste informazioni. Io credo che posto così il problema sia sbagliato. Invece di aver timore, mettiamo i cittadini in condizione di comprenderli. Entra qui in gioco quella che chiamiamo data literacy, la cultura dei dati.»Dato l’accesso ai dati della pubblica amministrazione, che cosa dovrebbe accadere?«Vale la legge di Linus: più gente guarda, più è facile che gli errori vengano scoperti, più è probabile imbattersi in qualcuno capace di risolverli.  Restando ancorati alla metafora del software, l’amministrazione pubblica può presentare tre bug: l’errore umano, la corruzione, le frodi. Più è ampia la platea che ha accesso, più è facile poter cambiare.» Ancora un’obiezione diffusa: non è facile rendere produttivi i processi di apertura dei dati.«Non credo dobbiamo affrontare il tema degli open data con una sorta di ansia da prestazione. In realtà, già la semplice consapevolezza  della pubblicità tende a modificare i comportamenti.»E c’è poi la contestazione sulla spesa.«È vero, la trasparenza costa, ma anche questo è un falso problema. O meglio, dipende dal punto di vista. Il sistema del Foia (la legge sulla libertà di informazione che in USA permette ai cittadini di sapere come opera il governo attraverso una serie di regole a cui devono attenersi le amministrazioni, ndr) costa 5 dollari ad americano ogni anno. In Italia la corruzione costa 1.000 euro pro capite. Investendo in trasparenza forse non cancelleremmo tutta quella spesa, ma forse risparmieremmo un bel po’».Basta la trasparenza a cambiare in meglio la relazione cittadino-amministrazione?«La trasparenza delegata al voyeurismo non mi interessa. Né può funzionare una trasparenza fine a se stessa. Funziona invece se aiuta a comprendere e partecipare. Se il cittadino finalmente ottiene i dati che testimoniano la corruzione, ma poi non può incidere nel cambiare le cose, la frattura  tra società e rappresentanza aumenterà.» Quindi siamo al pezzo successivo del sistema, la partecipazione«La trasparenza deve essere strumentale alla partecipazione. Altrimenti diventa  controproducente. Se un cittadino accetta di partecipare a un progetto, investendo tempo, risorse, entusiasmo, ma vede che poi nulla cambia, non risponderà al secondo invito.» C’è anche una geografia della trasparenza?«C’è una questione meridionale degli open data. Salvo piccole esperienze tra Puglia e Sicilia, il lavoro sui dati è tutto concentrato tra centro e nord. Questa cartina è indice di arretratezza, ma anche di distrazione: quante amministrazioni dicono “abbiamo cose più importanti a cui pensare”? Eppure l’accesso ai dati non è un’esigenza minore proprio perché sviluppa altri meccanismi di crescita.» In questo Mezzogiorno alle prese con i dati, come sta la Basilicata?«La Basilicata è nella media di un Mezzogiorno che questi dati li ha trascurati. Se ne comincia a parlare ora, anche per la campagna di Matera 2019 a capitale europea della cultura. Forse quello che è successo in regione potrebbe accelerare certi ragionamenti.»Le inchieste giudiziarie sui rimborsi gonfiati in consiglio regionale hanno fatto emergere anche in Basilicata meccanismi sotterranei della spesa pubblica.«La verità è la trasparenza è un fattore di giustizia anche per chi non ha nulla da nascondere. Se non si consente di guardare, semplicemente si incentiva il luogo comune.  In questo processo rientra anche il controllo sulle amministrazioni che devo essere adempienti rispetto alla trasparenza. Ci sono due categorie che possono esercitare questo ruolo, in modo complementare: giornalisti e cittadini. Ai primi spetta anche un compito didattico. Il cittadino ha un compito duro: essere un rompiscatole è più difficile che essere un suddito.»E se tutti fossimo un po’ più rompiscatole?«Il primo effetto potrebbe essere lo slittamento di una certa conoscenza dalla cronaca giudiziaria a quella di tutti i giorni: non dovremmo arrivare a ottenere i dati pubblici perché c’è un’inchiesta della magistratura, ma piuttosto perché c’è una tensione civica della comunità che vuole sapere». È questa la spinta dal basso?«Adesso, con le ultime inchieste, ci siamo concentrati su quello che accade in Regione. E le altre amministrazioni?  Se la rappresentanza capisce che, al di là della imposizione normativa, non c’è interesse, che le persone votano a prescindere dalla trasparenza, non cambia nulla.»Magari diventa un tema da campagna elettorale.«Sì, magari. Tutti ne parlano. In linea di principio tutti la vogliono. Vediamo che cosa accadrà, cominciamo per esempio dal tema del finanziamento in campagna elettorale per poi andare oltre. La trasparenza, in fondo, è un medoto.»s.lorusso@luedi.it

 

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