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La triste vicenda dell’ex Vivalat
sommario: Da possibilità per la città a fallimento. Così si continuano a buttare soldi: impianti in acciaio inossidabile abbandonati. Eppure «basterebbe vendere anche a prezzo inferiore»
di ANTONELLA GIACUMMO
QUANDO raccontano partono dalla fine. Gli ex dipendenti della Vivalat ricordano ancora le ultime lotte, le barricate, le proposte di autogestione. «Ancora qualche volta sogno di notte l’impianto», dice uno di loro.
Quell’impianto – un tempo all’avanguardia – giace oggi come un gigante
abbandonato in via del Basento. Uno spazio enorme, circa 40.000 metri
quadri (di cui 8.000 coperti). Un capannone grande, altissimo. Fuori i
mezzi che un tempo trasportavano il latte quasi tutti arrugginiti. E
dentro
l’abbandono di quei macchinari che all’epoca – parliamo degli anni Ottanta
– erano all’avanguardia, costavano svariati milioni di lire. «Ma anche
oggi
– dicono i dipendenti – quegli impianti potrebbero essere usati, erano di
grande qualità e quando hanno smesso di funzionare erano praticamente
nuovi».
La centrale del latte di Potenza non era dove c’è oggi il capannone
abbandonato. Nasce più in basso, dove ora ci sono negozi e bar. L’idea
nasce intorno al 1955-1960 da un progetto dell’Ente per la Riforma
agraria,
presieduto da Decio Scardaccione. «Un’idea illuminata», dicono gli ex
lavoratori della Centrale. Perché nasceva dall’analisi del territorio.
Attorno a Potenza, nelle campagne, c’erano tanti allevatori, ma con pochi
capi ciascuno. Con il latte prodotto si faceva fronte al fabbisogno
familiare, ma con quello che avanzava? E così l’idea fu quella di creare
un
mercato per quel latte. Era un doppio investimento: sull’occupazione –
sono
110 i dipendenti – e sul territorio. I tanti allevatori sparsi, avendo un
mercato per commerciare il loro prodotto, avrebbero incrementato il numero
di capi di bestiame.
 Viene creata la Central Valli (che riunisce
tante piccole cooperative). I dirigenti fanno parte del personale
dell’Esab. E sono loro a creare il marchio “Latte Rugiada”.
«Noi avevamo un grande mercato – dicono i dipendenti – ma un problema: sul
finire degli anni Settanta la concorrenza comincia a farsi forte: c’è la
Parmalat, la Granarolo. La differenza è che mentre loro possono comprare
latte in tutta Europa e a prezzi molto bassi, noi dovevamo tenere il
prezzo
politico del latte».
Per realizzare l’enorme capannone attuale ci vogliono circa 15 anni. 
Il collaudo della nuova struttura avviene il 22 novembre del 1980, la sera
prima del terremoto che devasterà Potenza. E questo forse è un segno del
destino.
Il terremoto cambia tutto. Per anni infatti la nuova sede della centrale
si trasforma in un deposito per i viveri destinati ai terremotati. E la
centrale continua a distribuire latte, ma gratis. Quelli che in quegli
anni
andavano a scuola ricordano ancora i cartoni di Latte Rugiada distribuiti
ai piccoli. Allo stabilimento passa un altro dirigente, Sarli.
«Anche lui davvero illuminato, ma fatto fuori quasi subito per ragioni
politiche».
Quella centrale però è ancora un grande patrimonio: «Ricordiamo bene la
lotta tra Granarolo e Parmalat che volevano comprare tutta la struttura.
La
Granarolo, che era di sinistra, presentò però un bel progetto aziendale.
Si
prevedeva anche l’assorbimento di tutto il personale. La Parmalat stava
più
vicina ai democristiani, ma nel piano prevedeva tagli e licenziamenti. E
in
quei giorni noi tutti i giorni ci chiedevamo perché non vendessero tutto a
Granarolo». La crisi è forte: i debiti, i ritardi. La Regione non ripiana
e
decide – parliamo della metà degli anni Ottanta – di affidare tutto a un
manager: si chiama Giuseppe Fierro. E inizia così l’era della Vivalat. E’
la fase conclusiva.
Gli anni della Vivalat
«Il nuovo centro lattiero-caseario di Potenza è stato affidato alla
Basilicata latte spa, società costituita nel 1983 con apporto di capitale
dell’Esab e di un imprenditore lucano».
E’ quanto si legge sulla brochure della Vivalat. L’imprenditore lucano è
Fierro. Prima del terremoto aveva un negozio di elettrodomestici. Dopo
l’Ottanta mette in piedi una serie di attività finchè la Regione – a cui
la
proprietà dell’Esab è passata – gli affida la centrale del latte.
Poi arrivano i guai giudiziari per Fierro, un’accusa per bancarotta
fraudolenta (andata in prescrizione). Ma questo segna la fine della
centrale del latte di Potenza.
Ci sono 25 dipendenti (tutti fra i 45 e i 50 anni), più i tanti lavoratori
dell’indotto. Cosa faranno queste persone ormai vecchie per il mercato del
lavoro?
Allora propongono: perché per loro quell’impianto che non ha mai
funzionato a regime è davvero una grande possibilità. Una quindicina di
dipendenti decide di provare la strada dell’autogestione. Bic Basilicata
(i
precursori di Sviluppo Italia) punta sul progetto: potrebbe entrare come
partner e seguire da vicino l’intera iniziativa. Gli ex dipendenti ci
credono davvero: «mettiamo sul tavolo la nostra liquidazione: tra quella e
i 700 milioni di lire di Bica Basilicata avremmo potuto raccogliere circa
un miliardo». Sarebbe una soluzione possibile: nasce la cooperativa
Armonia
– che fornisce un articolato business plan e l’entusiamo e la voglia di
chi
sente quella come una possibilità.
Ma non si può affidare l’impiato così, senza un bando di gara. La Regione
bandisce e si presentano in tre: la cooperativa di ex dipendenti, una
società di Altamura e il caseificio Pace e Becce.
Chi vince? Nessuno. Nessuno si sente evidentemente di fare una scelta.
Tutto finisce nel nulla e pian piano muore così la Vivalat Potenza.
Ci sono 25 dipendenti per strada. Che per un po’ sopravvivono con la
mobilità, poi ognuno finisce per combattere con i suoi guai. E’ il 1994.
L’azienda è messa in mano a un curatore fallimentare. Gli ex, dopo
manifestazioni e picchetti perdono anche la liquidazione: si vende troppo
poco e tutte le ricchezze buttate in quell’impianto altamente tecnologico
non servono più a nessuno. Da allora sono passati 19 anni. E quello spazio
immenso è ancora lì, perduto e dimenticato. Patrimonio della Regione
Basilicata ma praticamente inutile. Camion oramai arrugginiti
all’ingresso.
Strumenti di valore all’interno lasciati a marcire.
«E dire che ognuno di quei rubinetti costa circa 500 euro. Era tutto in
acciaio inossidabile: ma sa quanto vale l’acciaio sul mercato?».
Si preferisce abbandonare questo colosso a un destino fatto
di ruggine e polvere. Si potrebbe pensare a un luogo da destinare alle
imprese. Da concedere in comodato d’uso magari ai giovani imprenditori con
una buona idea ma senza soldi. Si potrebbero provare a trasformare quel
fallimento in un’opportunità creativa. Si potrebbe destinare l’area ai
tanti artigiani che da decenni chiedono un’area loro destinata.
E invece nulla. «Troppo costoso bonificare, hanno detto in Regione. E
invece si potrebbe smantellare tutto a prezzi contenuti se non addirittura
guadagnandoci qualcosa». Un’inezia che è più grave ancora di tutte le cose
di cui oggi si accusa la politica. Un’area nel cuore di Potenza che
resterà
per sempre una ferita. Per chi ha perso il lavoro e un’opportunità, ma
anche per tutti gli altri che un’opportunità mai l’avranno.

QUANDO raccontano partono dalla fine. Gli ex dipendenti della Vivalat ricordano ancora le ultime lotte, le barricate, le proposte di autogestione. «Ancora qualche volta sogno di notte l’impianto», dice uno di loro.Quell’impianto – un tempo all’avanguardia – giace oggi come un giganteabbandonato in via del Basento. Uno spazio enorme, circa 40.000 metriquadri (di cui 8.000 coperti). Un capannone grande, altissimo. Fuori imezzi che un tempo trasportavano il latte quasi tutti arrugginiti. E dentro l’abbandono di quei macchinari che all’epoca – parliamo degli anni Ottanta- erano all’avanguardia, costavano svariati milioni di lire. «Ma anche oggi- dicono i dipendenti – quegli impianti potrebbero essere usati, erano digrande qualità e quando hanno smesso di funzionare erano praticamente nuovi». La centrale del latte di Potenza non era dove c’è oggi il capannone abbandonato. Nasce più in basso, dove ora ci sono negozi e bar. L’ideanasce intorno al 1955-1960 da un progetto dell’Ente per la Riformaagraria,presieduto da Decio Scardaccione. «Un’idea illuminata», dicono gli exlavoratori della Centrale. Perché nasceva dall’analisi del territorio.Attorno a Potenza, nelle campagne, c’erano tanti allevatori, ma con pochicapi ciascuno. Con il latte prodotto si faceva fronte al fabbisognofamiliare, ma con quello che avanzava? E così l’idea fu quella di creareunmercato per quel latte. Era un doppio investimento: sull’occupazione -sono110 i dipendenti – e sul territorio. I tanti allevatori sparsi, avendo unmercato per commerciare il loro prodotto, avrebbero incrementato il numerodi capi di bestiame.
 

 

Viene creata la Central Valli (che riuniscetante piccole cooperative). I dirigenti fanno parte del personaledell’Esab. E sono loro a creare il marchio “Latte Rugiada”.«Noi avevamo un grande mercato – dicono i dipendenti – ma un problema: sul finire degli anni Settanta la concorrenza comincia a farsi forte: c’è la Parmalat, la Granarolo. La differenza è che mentre loro possono comprarelatte in tutta Europa e a prezzi molto bassi, noi dovevamo tenere ilprezzopolitico del latte».
Per realizzare l’enorme capannone attuale ci vogliono circa 15 anni. Il collaudo della nuova struttura avviene il 22 novembre del 1980, la seraprima del terremoto che devasterà Potenza. E questo forse è un segno deldestino.Il terremoto cambia tutto. Per anni infatti la nuova sede della centralesi trasforma in un deposito per i viveri destinati ai terremotati. E lacentrale continua a distribuire latte, ma gratis. Quelli che in queglianniandavano a scuola ricordano ancora i cartoni di Latte Rugiada distribuitiai piccoli. Allo stabilimento passa un altro dirigente, Sarli.«Anche lui davvero illuminato, ma fatto fuori quasi subito per ragionipolitiche».Quella centrale però è ancora un grande patrimonio: «Ricordiamo bene lalotta tra Granarolo e Parmalat che volevano comprare tutta la struttura.LaGranarolo, che era di sinistra, presentò però un bel progetto aziendale.Siprevedeva anche l’assorbimento di tutto il personale. 

La Parmalat stava più vicina ai democristiani, ma nel piano prevedeva tagli e licenziamenti. E in quei giorni noi tutti i giorni ci chiedevamo perché non vendessero tutto a Granarolo». La crisi è forte: i debiti, i ritardi. La Regione non ripianaedecide – parliamo della metà degli anni Ottanta – di affidare tutto a unmanager: si chiama Giuseppe Fierro. E inizia così l’era della Vivalat. E’la fase conclusiva.Gli anni della Vivalat«Il nuovo centro lattiero-caseario di Potenza è stato affidato allaBasilicata latte spa, società costituita nel 1983 con apporto di capitaledell’Esab e di un imprenditore lucano».E’ quanto si legge sulla brochure della Vivalat. L’imprenditore lucano è Fierro. Prima del terremoto aveva un negozio di elettrodomestici. Dopol’Ottanta mette in piedi una serie di attività finchè la Regione – a cuilaproprietà dell’Esab è passata – gli affida la centrale del latte.Poi arrivano i guai giudiziari per Fierro, un’accusa per bancarotta fraudolenta (risoltatasi con l’assoluzione nel 2009 per tutto il cda). Ma questo segna la fine della centrale del latte di Potenza.

Ci sono 25 dipendenti (tutti fra i 45 e i 50 anni), più i tanti lavoratori dell’indotto. Cosa faranno queste persone ormai vecchie per il mercato dellavoro? Allora propongono: perché per loro quell’impianto che non ha mai funzionato a regime è davvero una grande possibilità. Una quindicina didipendenti decide di provare la strada dell’autogestione. Bic Basilicata(iprecursori di Sviluppo Italia) punta sul progetto: potrebbe entrare comepartner e seguire da vicino l’intera iniziativa. Gli ex dipendenti cicredono davvero: «mettiamo sul tavolo la nostra liquidazione: tra quella ei 700 milioni di lire di Bica Basilicata avremmo potuto raccogliere circaun miliardo». Sarebbe una soluzione possibile: nasce la cooperativaArmonia- che fornisce un articolato business plan e l’entusiamo e la voglia dichisente quella come una possibilità.Ma non si può affidare l’impiato così, senza un bando di gara. La Regionebandisce e si presentano in tre: la cooperativa di ex dipendenti, unasocietà di Altamura e il caseificio Pace e Becce.Chi vince? Nessuno. Nessuno si sente evidentemente di fare una scelta.Tutto finisce nel nulla e pian piano muore così la Vivalat Potenza.

Ci sono 25 dipendenti per strada. Che per un po’ sopravvivono con lamobilità, poi ognuno finisce per combattere con i suoi guai. E’ il 1994.L’azienda è messa in mano a un curatore fallimentare. Gli ex, dopomanifestazioni e picchetti perdono anche la liquidazione: si vende troppopoco e tutte le ricchezze buttate in quell’impianto altamente tecnologiconon servono più a nessuno. Da allora sono passati 19 anni. E quello spazioimmenso è ancora lì, perduto e dimenticato. Patrimonio della RegioneBasilicata ma praticamente inutile. Camion oramai arrugginitiall’ingresso.Strumenti di valore all’interno lasciati a marcire.«E dire che ognuno di quei rubinetti costa circa 500 euro. Era tutto inacciaio inossidabile: ma sa quanto vale l’acciaio sul mercato?».Si preferisce abbandonare questo colosso a un destino fattodi ruggine e polvere. Si potrebbe pensare a un luogo da destinare alleimprese. Da concedere in comodato d’uso magari ai giovani imprenditori conuna buona idea ma senza soldi. Si potrebbero provare a trasformare quelfallimento in un’opportunità creativa. Si potrebbe destinare l’area aitanti artigiani che da decenni chiedono un’area loro destinata.E invece nulla. «Troppo costoso bonificare, hanno detto in Regione. Einvece si potrebbe smantellare tutto a prezzi contenuti se non addiritturaguadagnandoci qualcosa». Un’inezia che è più grave ancora di tutte le cosedi cui oggi si accusa la politica. Un’area nel cuore di Potenza cheresteràper sempre una ferita. Per chi ha perso il lavoro e un’opportunità, maanche per tutti gli altri che un’opportunità mai l’avranno.

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