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L'ospedale dell'Annunziata di Cosenza

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Un pool di avvocati cosentini sta lavorando e cercando documentazioni a sostegno di questa testi. Le sale operatorie sono state poste sotto sequestro nei mesi scorsi

COSENZA – Due persone morte di setticemia e un’altra sopravvissuta al famigerato “Serratia marcescens”. Tre casi registrati nell’arco di pochi mesi e legati da un comun denominatore: tutti i pazienti in questione hanno affrontato, per ragioni diverse, un intervento chirurgico all’ospedale di Cosenza.

Il sospetto, dunque, è che ognuno di loro possa aver contratto l’infezione nelle sale operatorie già finite nel mirino della magistratura a metà novembre (LEGGI LA NOTIZIA). Questa almeno è l’ipotesi su cui sta lavorando una squadra di avvocati cosentini – Massimiliano Coppa e Paolo Coppa supportati da Luigi Forciniti e Marianna De Lia – che, per l’occasione, si sono rivolti a un pool di medici legali e infettivologi dell’università Cattolica di Roma.

A fornire loro le rispettive documentazioni cliniche sono stati i familiari delle vittime, mossi dalla speranza di far luce sulla vicenda.

I casi si sono verificati tra giugno e ottobre di quest’anno, quasi a ridosso, dunque, del sequestro delle sale operatorie dell’Annunziata – seppur con facoltà d’uso – chiesto dalla Procura guidata da Mario Spagnuolo. Un provvedimento adottato, tra le altre cose, per gli «evidenti rischi di contaminazione derivanti dalla promiscuità del ciclo sporco pulito, dalla presenza di locali adibiti a stoccaggio di rifiuti speciali in aree non previste nonché dal mancato rispetto dei parametri microclimatici e microbiologici». Qualora fosse accertata l’esistenza di un collegamento con le infezioni contratte dai pazienti, si tratterebbe, dunque, di un bilancio pesantissimo. Due di loro sono deceduti per shock settico provocato dalla setticemia; il terzo – fortunatamente – è rimasto in vita, ma con conseguenze altamente invalidanti a causa dell’infezione da Serratia Marcescens che, per l’Annunziata rappresenta un vero e proprio spauracchio. Il batterio, infatti, è tristemente noto alle cronache già dal 2013 per la morte di Cesare Ruffolo, vittima di una trasfusione operata con una sacca di sangue proveniente da San Giovanni in Fiore e risultata poi contaminata proprio dal Serratia, un batterio del sapone. Ruffolo, all’epoca quasi ottantenne, non è sopravvissuto a quel trattamento, a differenza di un altro paziente, il quarantenne Francesco Salvo, che anche in virtù della giovane età è riuscito a superare la malattia. Per quei fatti è tuttora in corso un processo a carico di medici e vertici dell’Azienda ospedaliera, ma il rischio ora è che il dramma possa riproporsi.

Purtroppo, dai dati documentali in possesso degli avvocati sembrerebbe che le circostanze e le infezioni registrate del 2013 siano praticamente sovrapponibili a quelle del 2016. E anche con riferimento alle altre specie di germi riscontrati sui pazienti, si tratterebbe di batteri nosocomiali “Gram-positivi” che, se non curati o tempestivamente identificati, conducono al decesso. Nelle prossime ore, il dossier finirà sul tavolo di Spagnuolo unitamente alle querele che daranno il via alle indagini.

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