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di LUCIA SERINO
UN compleanno senza fare troppi bilanci. Trent’anni non sono molti,  sicuramente troppo pochi per raccontarsi con una storia. Ma all’Università della Basilicata, arrivata al terzo decennio di vita, il profilo basso dell’appuntamento è dovuto ad altro. Gli appuntamenti per le celebrazioni,  in realtà, sono in agenda, ma se tentassimo di avere una prospettiva su quello  che sarà in funzione di ciò che è stato, sbaglieremmo di sicuro.
«Sta cambiando tutto, anzi, è già cambiato – considera il rettore Mauro Fiorentino  – l’esperienza passata non può valere come senso storico lineare che arriva ad oggi. E’ il momento della ripartenza. Non solo da noi. Ma la ripartenza arriva con una rottura, con una discontinuità. Serve capire il contesto e orientarsi. E motivare le persone. In astratto se avessimo avuto  una storia insignificante finora, e comunque così non è stato, ciò non pregiudicherebbe la possibilità di creare il nuovo»
Il rettore dell’Unibas mi riceve nella sua stanza nella sede del Francioso. Per certi aspetti è quasi rassicurante entrare in una università che è dentro un quartiere. I campus possono essere comodi, stare nel cuore di una città dà il senso di un radicamento, fa comunità. 
Chiedo subito al Rettore se il senso per il quale nacque l’ateneo è ancora in piedi, se è lo stesso con il quale fu inaugurato. All’indomani del terremoto dell’Ottanta  (tre anni dopo) era il più bel regalo di speranza che la società lucana potesse regalarsi dopo quei giorni di lutto e perdizione. «Sviluppo e ruolo  sociale», dice Fiorentino, fu una leva territoriale. L’università a servizio degli studenti lucani e contemporaneamente chiamata a svolgere la più classica  delle funzioni: contaminare con visioni e progetti un territorio che aveva bisogno  di aperture. «Un ruolo spinta». 
Svolge ancora questa funzione? Proprio qui è la rottura storica. La spiega bene il rettore. Spiega come una contemporaneità fatta di velocissime grammatiche competitive abbia spinto verso mondi obbligati (e spesso  omologati) un percorso di specificità per il quale l’Unibas era nata.  «La logica della  competizione tra gli atenei ha fatto sì che si imponesse come trainante il modello di quelle  due, tre università italiane (non ci metto neanche Napoli tra queste) che hanno rincorso un modello anglosassone tra l’altro in crisi. E questo ha  disconnesso le università dai territori e dalla specificità di una funzione, soprattutto  al Sud. A mio avviso un limite. L’internazionalizzazione della ricerca è un  valore e una certezza e non è certo una novità, e comunque anche quella di studenti  e docenti non fa male. E’ un punto fermo. Ma continuo a pensare, oggi più che mai, che il valore dell’università non può che essere la presenza di essa a Potenza e a Matera». Matera è molto presente nei pensieri del Rettore. «La Basilicata adesso è molto Matera».
 Sono anche cicli, come un tempo lo furono Maratea (e qui una parentesi su Villa Nitti e la fondazione) o le Dolomiti lucane. «Il barocco lucano è stato scoperto dai nostri studenti», dice orgoglioso.
 Il cruccio restano i mille impedimenti che ritardano e ostacolano il pieno insediamento di una scuola di beni architettonici,  turismo, creatività. L’Unibas, ovviamente, è dentro il disastro Italia della ricerca e dell’istruzione. «Regole, vincoli, contratti bloccati, assunzioni  impossibili per ricercatori a tempo indeterminato: una ipernormazione che voleva anche governare il familismo di scuola dell’Accademia. Oggi siamo all’eccesso opposto, alla precariato scientifico». Gli chiedo, appunto, del familismo accademico,  dei baronati, delle scuole.
«Anche questo sta velocemente cambiando, in settori scientifici come ingegneria, farmacia è già cambiato». 
Chiedo della migrazione studentesca, se ha senso tenere in piedi corsi con cinque, sei studenti. «La migrazione studentesca è stata a fasi. A un certo punto è diventato prioritario andare fuori, un fenomeno tipicamente meridionale, direi anche provinciale. Di certo non siamo stati aiutati dalla brillante legge italiana che dà un contributo a chi vuole andare a studiare fuori regione. Non un contributo  al merito, ma un incentivo alla mobilità. Ma oggi l’Unibas per alcune facoltà  non solo svolge una funzione fondamentale per l’accoglienza degli studenti del bacino delle aree interne ma, per certi aspetti, è attrattiva anche per gli studenti delle regioni vicine, Puglia e Campania. Ciò detto è una università che ha servizi attrezzati per questa popolazione studentesca. Con le  difficoltà di dover garantire standard di qualità a un bacino comunque potenzialmente basso in relazione alla popolazione. Poi c’è il sistema del governo dei  luoghi, che gioca molto, anzi è fondamentale. Quando andai in America nel  giro di un giorno avevo tutto quello che mi serviva, in pochissime ore anche l’utenza telefonica, ma qui il discorso è sul sistema Paese». Insomma lo  stesso problema che attraversa tutti i settori di servizio della Basilicata ( piccoli numeri e livelli omogenei di intervento spesso senza compensazione di sostenibilità economica). 
E qui entra in gioco la sussidiarietà della funzione pubblica, in pratica l’ingente somma  di risorse che mette a disposizione la Regione. Gran vanto per chi l’ha  guidata. Nelle interviste di fine mandato, alla domanda per cosa volesse essere ricordato, De Filippo rispose: per l’aiuto dato all’università. 
«Sono stati sempre rispettosi della nostra autonomia, con De Filippo ma anche con Viceconte quando,  ad esempio, abbiamo sottoscritto l’accordo triennale. Il problema vero con la politica è dare corpo al senso del nostro impegno. Cioè attuare  concretamente la cornice di confronto e di intervento delle nostre intelligenze. Tutti  dicono di ritenerci fondamentali, poi siamo esclusi da qualunque tavolo di discussione. Il memorandum sul petrolio, per esempio. In genere quegli  stessi centri di potere che immaginano una relazione con i nostri dipartimenti poi  si guardano bene dal coinvolgerci. Io non credo molto alla selezione e alla partizione per eccellenze in una università come la nostra, però ce ne sono alcune di immediato servizio, il nostro laboratorio di ingegneria sismica, per esempio». 
Sulle  immatricolazioni basse ad alcune facoltà, «non v’è dubbio alcuno che bisogna operare un ripensamento». 
Fiorentino è a scadenza tra meno di un anno. Campano come molti dei suoi colleghi  gli chiedo se oggi si considera un lucano. «Lo sono perché lo sono  i miei  figli». 
E mi confessa che sta pensando di vendere la sua casa di Napoli.  

Un compleanno senza fare troppi bilanci. Trent’anni non sono molti,  sicuramente troppo pochi per raccontarsi con una storia. Ma all’Università della Basilicata, arrivata al terzo decennio di vita, il profilo basso dell’appuntamento è dovuto ad altro. Gli appuntamenti per le celebrazioni,  in realtà, sono in agenda, ma se tentassimo di avere una prospettiva su quello  che sarà in funzione di ciò che è stato, sbaglieremmo di sicuro.

«Sta cambiando tutto, anzi, è già cambiato – considera il rettore Mauro Fiorentino  – l’esperienza passata non può valere come senso storico lineare che arriva ad oggi. E’ il momento della ripartenza. Non solo da noi. Ma la ripartenza arriva con una rottura, con una discontinuità. Serve capire il contesto e orientarsi. E motivare le persone. In astratto se avessimo avuto  una storia insignificante finora, e comunque così non è stato, ciò non pregiudicherebbe la possibilità di creare il nuovo».

Il rettore dell’Unibas mi riceve nella sua stanza nella sede del Francioso. Per certi aspetti è quasi rassicurante entrare in una università che è dentro un quartiere. I campus possono essere comodi, stare nel cuore di una città dà il senso di un radicamento, fa comunità. Chiedo subito al Rettore se il senso per il quale nacque l’ateneo è ancora in piedi, se è lo stesso con il quale fu inaugurato. All’indomani del terremoto dell’Ottanta  (tre anni dopo) era il più bel regalo di speranza che la società lucana potesse regalarsi dopo quei giorni di lutto e perdizione. 

«Sviluppo e ruolo  sociale», dice Fiorentino, fu una leva territoriale. L’università a servizio degli studenti lucani e contemporaneamente chiamata a svolgere la più classica  delle funzioni: contaminare con visioni e progetti un territorio che aveva bisogno  di aperture. «Un ruolo spinta». Svolge ancora questa funzione? Proprio qui è la rottura storica. La spiega bene il rettore. Spiega come una contemporaneità fatta di velocissime grammatiche competitive abbia spinto verso mondi obbligati (e spesso  omologati) un percorso di specificità per il quale l’Unibas era nata.  

«La logica della  competizione tra gli atenei ha fatto sì che si imponesse come trainante il modello di quelle  due, tre università italiane (non ci metto neanche Napoli tra queste) che hanno rincorso un modello anglosassone tra l’altro in crisi. E questo ha  disconnesso le università dai territori e dalla specificità di una funzione, soprattutto  al Sud. A mio avviso un limite. L’internazionalizzazione della ricerca è un  valore e una certezza e non è certo una novità, e comunque anche quella di studenti  e docenti non fa male. E’ un punto fermo. Ma continuo a pensare, oggi più che mai, che il valore dell’università non può che essere la presenza di essa a Potenza e a Matera». Matera è molto presente nei pensieri del Rettore. «La Basilicata adesso è molto Matera». Sono anche cicli, come un tempo lo furono Maratea (e qui una parentesi su Villa Nitti e la fondazione) o le Dolomiti lucane. 

«Il barocco lucano è stato scoperto dai nostri studenti», dice orgoglioso. Il cruccio restano i mille impedimenti che ritardano e ostacolano il pieno insediamento di una scuola di beni architettonici,  turismo, creatività. L’Unibas, ovviamente, è dentro il disastro Italia della ricerca e dell’istruzione. «Regole, vincoli, contratti bloccati, assunzioni  impossibili per ricercatori a tempo indeterminato: una ipernormazione che voleva anche governare il familismo di scuola dell’Accademia. Oggi siamo all’eccesso opposto, alla precariato scientifico». 

Gli chiedo, appunto, del familismo accademico,  dei baronati, delle scuole.«Anche questo sta velocemente cambiando, in settori scientifici come ingegneria, farmacia è già cambiato». 

Chiedo della migrazione studentesca, se ha senso tenere in piedi corsi con cinque, sei studenti. «La migrazione studentesca è stata a fasi. A un certo punto è diventato prioritario andare fuori, un fenomeno tipicamente meridionale, direi anche provinciale. Di certo non siamo stati aiutati dalla brillante legge italiana che dà un contributo a chi vuole andare a studiare fuori regione. Non un contributo  al merito, ma un incentivo alla mobilità. Ma oggi l’Unibas per alcune facoltà  non solo svolge una funzione fondamentale per l’accoglienza degli studenti del bacino delle aree interne ma, per certi aspetti, è attrattiva anche per gli studenti delle regioni vicine, Puglia e Campania. Ciò detto è una università che ha servizi attrezzati per questa popolazione studentesca. Con le  difficoltà di dover garantire standard di qualità a un bacino comunque potenzialmente basso in relazione alla popolazione. Poi c’è il sistema del governo dei  luoghi, che gioca molto, anzi è fondamentale. Quando andai in America nel  giro di un giorno avevo tutto quello che mi serviva, in pochissime ore anche l’utenza telefonica, ma qui il discorso è sul sistema Paese».

 Insomma lo  stesso problema che attraversa tutti i settori di servizio della Basilicata ( piccoli numeri e livelli omogenei di intervento spesso senza compensazione di sostenibilità economica). E qui entra in gioco la sussidiarietà della funzione pubblica, in pratica l’ingente somma  di risorse che mette a disposizione la Regione. Gran vanto per chi l’ha  guidata. Nelle interviste di fine mandato, alla domanda per cosa volesse essere ricordato, De Filippo rispose: per l’aiuto dato all’università. 

«Sono stati sempre rispettosi della nostra autonomia, con De Filippo ma anche con Viceconte quando,  ad esempio, abbiamo sottoscritto l’accordo triennale. Il problema vero con la politica è dare corpo al senso del nostro impegno. Cioè attuare  concretamente la cornice di confronto e di intervento delle nostre intelligenze. Tutti  dicono di ritenerci fondamentali, poi siamo esclusi da qualunque tavolo di discussione. Il memorandum sul petrolio, per esempio. In genere quegli  stessi centri di potere che immaginano una relazione con i nostri dipartimenti poi  si guardano bene dal coinvolgerci. Io non credo molto alla selezione e alla partizione per eccellenze in una università come la nostra, però ce ne sono alcune di immediato servizio, il nostro laboratorio di ingegneria sismica, per esempio». 

Sulle  immatricolazioni basse ad alcune facoltà, «non v’è dubbio alcuno che bisogna operare un ripensamento». Fiorentino è a scadenza tra meno di un anno. Campano come molti dei suoi colleghi  gli chiedo se oggi si considera un lucano. «Lo sono perché lo sono  i miei  figli». E mi confessa che sta pensando di vendere la sua casa di Napoli.  

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