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di LUIGI ACCATTOLI
Padre Jacques, all’inizio della vostra storia c’è San Bruno di Colonia (circa 1030-1101), detto anche Brunone, fondatore dei certosini. Ma egli più che stare chiuso in un monastero cammina per l’Europa.
«In effetti in Bruno nostro Padre si conciliano sia l’esperienza del cammino che della stabilità. Egli avrebbe voluto fermarsi nella solitudine, ma il Signore lo ha fatto spostare continuamente. Inizia il suo cammino da Colonia per andare a studiare a Reims. Ma quando Dio interviene nella sua vita Bruno, con due amici, lascia quella città e parte alla ricerca di un luogo solitario. Quando i suoi compagni scelgono una vita più comunitaria, Bruno s’incammina di nuovo nella fede per recarsi a Grenoble dove trova e interroga il vescovo Ugo. Nel pellegrinaggio Bruno rimane in ascolto di Dio per aderire a ciò che Egli gli indica; però, nel momento della scelta decisiva, Dio non parla a Bruno direttamente, ma a un ministro della Chiesa. Bruno segue Ugo sui sentieri impervi del massiccio di Chartreuse, perché intende affidarsi alla Chiesa e non camminare secondo delle intuizioni che potrebbero essere arbitrarie. È la Chiesa che lo conduce al suo posto e lo conferma nelle sue intenzioni».
Bruno «cammina» per la volontà di Dio, ma anche per conto di un Papa.
«Papa Urbano II che era stato alla scuola di Bruno a Reims chiama a Roma l’antico maestro perché diventi suo consigliere. Bruno, probabilmente con il cuore addolorato, obbedisce, lasciando il suo eremo e i suoi fratelli. Senza esitare, parte per Roma. In un certo senso, per Bruno, Dio è sconcertante. Per dare seguito al desiderio del Papa deve sacrificare tutto quello che ha costruito. Un po’ come è successo ad Abramo a cui viene chiesto di sacrificare Isacco. Forse anche a causa di questo intreccio tra cammino e solitudine, tra adesione a Dio e obbedienza alla Chiesa, la ricca personalità di Bruno resta per noi allo stesso tempo inaccessibile e piena di fascino».
Si direbbe che a ogni fase della sua vita succeda qualcosa che lo costringe a ricominciare.
«Sì, Dio gli chiede continuamente di andare altrove e di andare oltre, sconvolgendo ciò che Bruno ha realizzato fino a quel momento. Eccolo, allora, che segue il Papa nel Sud dell’Italia. Ma la chiamata alla solitudine risuona di nuovo nel suo cuore; egli ne parla con Urbano II. Il Papa, tuttavia, vorrebbe mettere a frutto le qualità di Bruno facendolo eleggere alla cattedra arcivescovile di Reggio Calabria, ma quando Bruno rinuncia all’onere e all’onore di quella carica, Urbano II non può che assecondare il desiderio profondo del nostro Padre. Ed ecco che Bruno riprende la vita solitaria, ma – per volere del Pontefice – non può tornare nella sua Chartreuse, sulle Alpi francesi. Si ritira in un altro «deserto» qui in Calabria. E non si tratta solo di un drastico cambiamento geografico: a causa della scelta di un luogo così lontano, Bruno deve rinunciare definitivamente a rivedere i suoi fratelli. Il suo viaggio, in fondo, non è che la parabola del cammino dell’anima sempre tesa alla ricerca di Dio e della sua volontà».
Anche lei – Padre Jacques – si è mosso tra la Chartreuse e la Calabria.
«Sì, ho fatto lo stesso cammino, dalle Alpi francesi alle Serre calabresi, ma senza passare per Roma. Dovrei dirlo con una modestia di cui forse non sono capace, ma è avvenuto questo anche per me. D’altra parte da questo percorso traggo questo insegnamento che applico a me stesso: Bruno non si è fermato alla Grande Chartreuse e non si è fermato neanche a Roma, ma è qui – tra i monti della Calabria – che ha raggiunto la pienezza della sua esperienza».
Che paragone può azzardare tra la sua esperienza alla Chartreuse e questa in Calabria?
«Inizialmente era l’Assoluto che mi attirava. Il tuffo in Dio e nel suo mistero inafferrabile. Qui in Calabria mi sembra di aver percepito l’importanza dell’incontro con la tenerezza di Dio, come quella della dimensione orizzontale dell’amore. Non vorrei usare parole azzardate, ma oggi è l’esperienza della bontà di Dio a governare la mia vita, unita all’impegno a esprimere e a comunicare agli altri questa dote divina. È la tenerezza. Intuisco che ciò che mi è consentito di sperimentare è una piccola partecipazione a ciò che è avvenuto a Bruno quando ha vissuto qui. Basta rileggere le poche pagine che ci rimangono e che ha scritto da questo eremo calabrese, paragonato a un porto felice in cui è approdato, allietato dalla presenza dei fratelli che vivevano con lui».
Fin dall’inizio della sua storia monastica lei si indirizza a San Bruno, o lo scopre dopo?
«L’ho scoperto in un secondo momento. All’inizio era la figura del monaco in generale che mi attraeva; il monaco in quanto impegnato a lodare il Signore giorno e notte e a stabilire una relazione esistenziale con Lui. Mi indirizzavo a questa figura senza fare ancora distinzione tra i diversi ordini monastici. Poi, seguendo la mia indole e predisposizione personale, mi sono reso conto che la mia via era quella dell’eremitismo ed è a questo punto che ho incontrato Bruno e la sua spiritualità. Egli non è del resto una figura facile da conoscere, non tanto perché egli ha lasciato pochi documenti, ma per la complessità stessa della sua vicenda umana e spirituale. Egli era già un personaggio influente nel periodo di Reims, ma fa la scelta di lasciare tutto per cercare la solitudine di un eremo. In un terzo momento, come abbiamo detto, viene riportato dall’obbedienza al servizio concreto della Chiesa. Non è stato facile per lui, allora, questo andirivieni e non è facile neanche per chi, oggi, lo voglia seguire».
L’insegnamento di Bruno è ancora vivo per voi, o egli è solo una memoria lontana, un richiamo simbolico?
«Quasi un millennio ci separa dal suo tempo. Cerchiamo di seguire le orme di Bruno. La sua capacità di rinuncia, di lasciare tutto e di ricominciare. Tentiamo di tenere sempre presente anche la sua disponibilità a fare la volontà di Dio espressa nella voce della Chiesa. Avvertiamo la sua lontananza, ma anche la sua sorprendente vicinanza: per noi – come per lui – Dio è il senso ultimo della vita ed è l’unico bene dal quale riceviamo la vera luce. Come Bruno i certosini sono allo stesso tempo fuori del mondo e legati strettamente al mondo. Non hanno niente di proprio da dire al mondo, non sono modelli di vita per gli altri, ma sono segno».
Sono segno stando nascosti?
«Un segno non è di necessità vistoso. Esso può anche essere discreto, rispettando pienamente la coscienza e la sensibilità di coloro che lo notano e ai quali non si impone, diventando un invito a fermarsi e ad interrogarsi. I certosini nel porto nascosto della Certosa vegliano, pregano, lottano al servizio della Chiesa. Cercano di essere testimoni e profeti. Sono vicini con il cuore a tutti i loro fratelli nell’umanità, vogliono trascinarli nel mistero di morte e di risurrezione di Cristo».
Che vuol dire essere monaco nel terzo millennio? Non è un anacronismo folle? Come se uno oggi volesse fare lo stilita – cioè vivere su una colonna – nel mezzo di un centro commerciale. «È certamente qualcosa di folle nel senso dei «folli di Dio». È anche qualcosa di anacronistico – e cioè al di fuori del tempo – nel senso che i monaci cristiani hanno sempre cercato. Essi infatti, anche nel Medioevo, volevano vivere un «altro tempo» rispetto a quello dei mercanti, delle università e dei castelli. Ma questa ricerca di un tempo alternativo li fa – paradossalmente – giusti ospiti e potenziali amici di ogni stagione storica e dunque anche di questo secolo. Sempre a tempo – potremmo dire parafrasando San Paolo nella Seconda Lettera a Timoteo (2Tm 4,2) – perché sempre fuori del tempo. Questo nostro nativo anacronismo ha una motivazione ecclesiale ed evangelica. I monaci infatti attualizzano la dimensione escatologica della Chiesa: sono la Chiesa che anticipa il Regno definitivo, la Chiesa in ascensione verso il Padre, la Chiesa rivolta a un altro mondo. A un altro mondo e dunque a un altro tempo».
Qualcosa come le «sentinelle del mattino», per usare un’immagine cara a Giovanni Paolo II?
«Mi trovo meglio con l’immagine, più modesta, del mozzo. Il monaco può essere paragonato al mozzo che – sulle navi che andavano alla scoperta del nuovo mondo nei secoli XV e XVI – si arrampicava sulla cima dell’albero maestro per scrutare l’orizzonte nella speranza di vedere profilarsi una riva sconosciuta. Il mozzo non deve avere il mal di mare, né la vertigine. Non è lui che guida la nave, il suo compito è solo di vegliare al suo posto di vedetta. Quando la terra appare in lontananza, grida la scoperta a tutti i membri dell’equipaggio, che da giù non possono ancora vederla. Come il mozzo, il monaco scruta i segni del mondo nuovo. Deve essere un uomo vigilante, totalmente teso verso il futuro a cui anela e che vorrebbe affrettare. In definitiva potrebbe essere definito l’uomo del desiderio».
In qualche maniera – dunque – il monaco dovrebbe sempre guardare in avanti.
«Nel suo oratorio drammatico Il libro di Cristoforo Colombo (1930), Paul Claudel mette queste parole sulla bocca del protagonista: «La vita del mozzo non consiste forse, eternamente, non nell’arrivare, ma nel partire?… Se ciò dipendesse da me, vorrei essere talmente partito che il ritorno sarebbe impossibile». Ogni monaco vorrebbe poter dire questo».
Cercando un altro mondo e abitando in qualche modo un altro tempo i monaci non rischiano di mancare l’appuntamento con questo mondo e con questo tempo? «No, perché la nostra scelta di stare rivolti a un altro mondo non deriva dal disinteresse per questa realtà. Vogliamo soltanto far presente che il mondo è in gestazione di un futuro che gli darà una perfezione e un compimento che non può raggiungere da se stesso. Il monaco è l’uomo della parusia, cioè dell’attesa del ritorno di Cristo, impegnato dunque in un atteggiamento di attenzione e di vigilanza per cogliere i segni di quella venuta. È un uomo che veglia facendo la posta, nella notte del mondo, all’aurora che viene: «Permanendo nelle veglie, [i monaci] attendono il ritorno del loro Signore per aprirgli immediatamente non appena egli bussi» (Bruno nella Lettera a Rodolfo il Verde). Da quella veglia viene la loro attitudine a percepire il destino dell’umanità che li circonda e a partecipare in modo specifico a esso. Cerchiamo di congiungere – per quanto è possibile – lo sguardo rivolto al futuro con quello mantenuto sul presente».
Che consistenza può avere lo sguardo al futuro? Non c’è il rischio di farsi guidare dalle proprie proiezioni mentali?
«A fondamento dello sguardo rivolto al futuro dev’esserci – prima di tutto – un’esperienza forte di Dio. Ne viene una scelta di vita che sta al margine rispetto alla comune umanità: essa provoca, è segno e invita a scegliere. Ricorda a tutti che qualcosa sta nascendo. Sollecita a percepire i sentieri imperscrutabili di Dio».
Voi vigilate e attendete a nome della Chiesa, ma la Chiesa lo sa, lo vuole? Comprende il vostro sguardo in avanti?
«Certamente lo comprende. Non siamo soli in questa impresa, non siamo abbandonati. Ecco un testo normativo del Concilio Vaticano II, contenuto nel paragrafo 44 della Costituzione dogmatica Lumen Gentium: «Poiché infatti il popolo di Dio non ha qui città permanente, ma va in cerca della futura, lo stato religioso, il quale rende più liberi i suoi seguaci dalle cure terrene, meglio anche manifesta a tutti i credenti i beni celesti già presenti in questo mondo, meglio testimonia la vita nuova ed eterna, acquistata dalla redenzione di Cristo, e meglio preannuncia la futura risurrezione e la gloria del Regno celeste». Questo paragrafo, che tratta dei religiosi in generale, si adatta perfettamente ai monaci, che sono anch’essi dei religiosi. È dunque a nome e per mandato della Chiesa che il monaco s’impegna a cambiare il proprio sguardo; a portare, attraverso gli occhi di Cristo, un altro sguardo su Dio, sul mondo, su se stesso. Non è certamente a titolo personale che ci impegniamo ad affermare, con la nostra vita, il primato di Dio, la superiorità dei beni futuri, i valori del Vangelo».
Lei pensa che il mondo d’oggi possa capirvi?
«Penso che in qualche misura una possibilità di comprensione tra i monaci e la restante umanità vi sia in ogni epoca storica perché non vi sono epoche dimenticate da Dio. Ma non è questa la nostra prima preoccupazione. Sappiamo di essere strani. «I monaci» ha scritto il monaco Thomas Merton (1915-1968) «non si aspettano di essere perfettamente capiti dagli uomini, perché già loro non capiscono perfettamente se stessi. Il monaco, il solitario si mostra poco intelligente se si spiega al resto del mondo. Quale tragedia per un monaco se egli dice ciò che spiega la sua vita monastica, la sua vocazione a dimorare nascosto in Dio! Sarebbe la prova che ha commesso l’errore di credere di aver capito il mistero della vocazione».
Thomas Merton e altri parlano della vita monastica come di una vita alternativa. Si usa anche la parola «profezia» per questo tipo di vita. Non è un linguaggio troppo lontano da quello mediamente utilizzato dall’umanità di oggi? «Provo a darne una spiegazione. Il profeta è uno che fa l’esperienza di Dio rimanendo in contatto con la realtà che lo circonda. Essere profeti non vuole dire trasmettere verità e dogmi, né preannunciare il futuro, ma comunicare l’esperienza di Dio e le sue esigenze vivendo la preghiera come ascolto dello Spirito e trovando in essa la forza per affrontare i cammini imprevedibili del Signore. Il profeta ci aiuta a imparare che, nel regno di Dio, da qualcosa di piccolo nasce qualcosa di grande. Il profeta è un testimone di speranza. E anche i monaci aspirano a contribuire a tale testimonianza, sapendo che Dio opera meraviglie mediante i mezzi più poveri».
La profezia dei monaci ha un messaggio specifico per la nostra epoca?
«Io credo di sì, ma quel messaggio di norma non sarà espresso in parole né gridato nelle piazze o attraverso i media. Il monaco profeta parla con la vita più che con le parole. Il segno specifico di cui egli è portatore, per l’umanità di oggi, potrebbe essere quello dell’attenzione alla debolezza dell’altro – di colui che non ha i mezzi umani per affrontare la vita da solo – e anche quello della comunicazione con il lontano, con il diverso. Con il più diverso possibile da me. Il monaco impara e addita – ma innanzitutto ama – la semplicità della vita in un mondo troppo complicato. Il monaco, come fu detto un tempo di Bruno, «afferra l’Uno afferrato dall’Uno», non volendo seguire «nulla di ciò che è molteplice e muta» (così suona l’elogio di Bruno venuto, dopo la sua morte, dall’Abbazia benedettina di Arras)».
L’uomo d’oggi ci appare sedotto dal molteplice come mai nella storia: come farà la Certosa ad appassionarlo all’Uno? «Il giovane che arriva qui in effetti viene dalla dispersione evidente del mondo d’oggi. Diciamo piuttosto che egli è portatore, rispetto al passato, di una grande varietà di conoscenze e di esperienze, che lo portano a momenti a favorire e in alcuni casi a ritardare la sua maturità umana e spirituale. Sappiamo bene che l’unificazione della mente e del cuore – dell’anima – non si fa in un giorno. Questo cammino è importantissimo per un monaco, ma credo che ogni uomo dovrebbe fare qualche passo in questa direzione, perché soltanto quando sarà unificato il cuore umano troverà la pace. Unificazione dunque come pacificazione, ritrovamento di sé nell’Uno».
Che cosa significa scegliere una vita di solitudine? E voi addirittura parlate di deserto.
«Coloro che partono per il deserto seguono il cammino per il quale lo Spirito condusse Cristo dopo il battesimo nel Giordano (cfr. Mc 1,12). Andiamo dunque nel deserto per seguire il Maestro. Ciò che caratterizza il deserto è che si tratta di un luogo senza strade e senza sentieri, senza segnaletica e senza punti di riferimento, ma è proprio lì che Dio conduce l’uomo e il suo popolo perché vivano forti esperienze di fede, perché imparino ad affidarsi totalmente a Lui laddove non c’è nessun appiglio umano e terrestre. Il deserto è un luogo senza vie, ma paradossalmente è attraverso di esso che passa l’unico cammino che deve percorrere chi cerca il Signore».
Ma camminando nel deserto dove mai si arriva?
«Il cammino nel deserto è l’unico che porti all’Oreb, il monte sul quale Dio si rivela. Nel silenzio del deserto, si sente più facilmente la voce di Dio. L’orecchio si affina nel silenzio e diventa capace di udire i mormorii più leggeri».

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