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PETILIA POLICASTRO – «Il pm Marcello Tatangelo non intende contestare l’aggravante mafiosa. Trovo tale decisione della pubblica accusa una scelta sbagliata. Una lettura riduttiva e falsata delle motivazioni che hanno spinto Carlo Cosco ed i suoi sodali ad uccidere Lea Garofalo». A parlare è l’avvocato Roberto D’Ippolito, che rappresenta Marisa Garofalo e Santina Miletta, sorella e madre della testimone di giustizia di Petilia Policastro scomparsa nel nulla nel novembre 2009, uccisa e probabilmente sciolta nell’acido. Allo stato l’aggravante mafiosa non viene contestata e secondo la parte civile si rischia di far passare il delitto come passionale. Il legale ha annunciato un’istanza, che presenterà alla prossima udienza, volta a far contestare ai sei imputati l’aggravante di aver agito con modalità mafiose, che emergererebbe, a suo dire, con più forza dall’istruttoria dibattimentale che si sta svolgendo davanti alla Corte d’Assise di Milano, anche se già veniva fuori dalle indagini preliminari pur essendo stata esclusa dal gip. Per l’avvocato D’ippolito, infatti, «risulta ormai ampiamente e solidamente riscontrato che Carlo Cosco (ex convivente della donna, ndr) non aveva perdonato la decisione di Lea Garofalo di rompere il muro di omertà e di rivelare all’autorità giudiziaria i particolari di alcuni delitti di cui ella risultava essere a conoscenza, se non altro perché avevano coinvolto la sua stessa famiglia». Perché, innanzitutto, «Non va dimenticato che Lea era sorella di Floriano Garofalo, ritenuto il capo di una cosca attiva in frazione Pagliarelle ed ivi ucciso in un agguato l’8 giugno del 2005, che aveva dato spazio ai fratelli Cosco proprio in virtù della relazione che intercorreva tra Carlo Cosco e la sorella». I presunti motivi d’onore? «Un’abile e suggestiva copertura di delitti aventi una matrice più complessa – sempre secondo l’istanza di D’Ippolito – eterofinalizzata in primo luogo ad apprendere i contenuti delle dichiarazioni rilasciate dalla vittima negli anni di collaborazione con le autorità inquirenti ed in secondo, nella logica e psicologia ‘ndranghetista, ad eliminare fisicamente una persona che, già contigua per ragioni familiari all’universo mafioso, quindi tenuta al più rigoroso rispetto dell’omertà più assoluta, aveva invece violato tale precetto con la sua decisione di collaborare con l’autorità giudiziaria». Il riferimento è all’omicidio di Antonio Comberiati, avvenuto a Milano nel maggio ’95, attribuito da Lea, nella sue dichiarazioni alla Dda di Catanzaro, all’ex convivente Carlo Cosco e al fratello Giuseppe. Un contributo significativo lo fornisce, secondo il legale, il pentito cutrese Angelo Salvatore Cortese al quale Cosco, durante un periodo di codetenzione, commissionò il delitto anche alla presenza del boss di Isola Capo Rizzuto Pasquale Nicoscia e di quello di Papanice Domenico Megna. «Tale metodo si inserisce perfettamente nell’ortodossia mafiosa, poiché utilizzato per cercare il consenso delle altre organizzazioni». Lo stesso Cortese ha precisato che «l’idea era di farlo passare come delitto passionale» perché «secondo le nostre leggi, la decisione di uccidere un’adultera spetta per prima cosa alla sua stessa famiglia, però se non si decide allora può intervenire la famiglia della persona tradita che può anche chiedere ad altri di ucciderla, come ha fatto Carlo Cosco». D’Ippolito si rifà anche a un precedente per dimostrare la connotazione mafiosa della vicenda, confermata dalla sentenza del 5 maggio 2011, emessa dal gup di Campobasso, che, col rito abbreviato, condannò Massimo Sabatino (imputato anche nel processo di Milano) a sei anni di reclusione per il tentativo di sequestro di Lea avvenuto il 5 maggio 2009, ritenendo sussistente l’ aggravante della finalità mafiosa. «Nella pronuncia si parla chiaramente di “carattere mafioso del movente che spinse il Sabatino, su mandato di Carlo Cosco, ad introdursi nell’abitazione della donna a Campobasso». «Doveva essere considerato estremamente pericoloso – si legge nella decisione – poiché determinato ad eliminare ogni ostacolo materiale si frapponesse a tale ascesa, e, primo fra tutti, la presenza, ai vertici del clan, proprio di quei Garofalo, che dovevano cadere sotto i suoi colpi», con un riferimento alle rivelazioni di Lea attinenti l’uccisione di Floriano Garofalo e di Antonio Comberiati, «omicidi nei quali il Cosco aveva svolto un ruolo di primo piano, nell’ottica di conquista dei vertici del clan, e della egemonia del territorio». 

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