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di FRANCO CIMINO

MA ce l’aveva o non ce l’aveva? E quella bellezza statuaria, perché si muoveva spaesata sul palco e nulla diceva dietro quel sorriso monotono e inespressivo? Sono le domande che, dalla settimana di Sanremo, sono piovute addosso agli italiani che hanno così potuto accantonare quelle che insistono ormai da mesi sulla magra vita cui saranno condannati, se tutto andrà bene, per almeno un decennio. Domande del tipo: ce la farò ad arrivare a fine mese? Potrò comprare il necessario per i miei figli? E i prestiti contratti con le banche, potrò onorarli? hanno lasciato spazio a quelle pruriginose che tengono svegli anche di notte. Belen Rodriguez, che in questa Italia è diventata una star senza ancora mostrare una sola qualità artistica, che non fosse la farfalla tatuata, non svela il mistero passato alla storia come quello delle mutandine. E nessuno della Rai ci sa ancora spiegare il mistero che ha portato una giovane modella ceca, bellissima, a calcare il palcoscenico dell’Ariston senza un compito per cui valesse il compenso che ha ricevuto. Nel periodo storico in cui, più che in ogni altro, bisognerebbe ripensare agli stili di vita, alle dinamiche sociali e alla stessa etica pubblica e privata, la Rai, cinghia di trasmissione del pensiero dominante, ci ripropone un modello di donna stereotipato.
Una donna simbolo di una cultura non soltanto maschile, ma edonistica ed economistica. Donna oggetto del desiderio, che, in maniera intrigante, essa stessa sollecita sui fragili sensi di uomini educati alla medesima logica del consumo, della mercificazione della carne, della sessualità come valore barattabile. E come strumento del potere maschile. Alcuni giorni fa, un giornale della periferia di quell’Europa che ancora non c’è, lancia invece una nuova figura femminile. Questo giornale è Il Quotidiano, che, attraverso il suo instancabile e coraggioso direttore, parla di Maria Concetta e Lea e Giuseppina, tre donne vittime della ‘ndrangheta, le prime due morendo e l’altra temendo e fuggendo. Matteo Cosenza, l’uomo dei quarantamila della manifestazione di Reggio Calabria, è anche persona assai sensibile, e questo sicuramente ha contribuito a portare il suo sguardo sulla tragica storia di queste tre donne calabresi. Il modo tenero con cui ne ha parlato e la delicatezza del suo scritto lo dimostrano. Dal palcoscenico di Sanremo s’è levata presuntuosamente la voce di un “moderno” profeta che, invece di parlare della donna e dell’uso volgare che tutti ne fanno, ci “impapina” con una serie di ovvietà tanto ovvie da rendere banale la stessa dinamica di pensiero che le sforna. Come cornetti offerti a giovani “affamati” all’alba delle sterili notti d’estate che non vogliono mai finire. Celentano, il predicatore, che, non so se c’è o ci fa, si sente davvero il profeta messianico, si comporta come quegli stessi preti che egli condanna. Ci parla di Dio, del Paradiso, e della vita immortale che ci attende. Nulla ci dice, neppure con le sue canzoni scritte da altri, della sofferenza degli uomini e delle donne, dello sfruttamento delle loro esistenze e della vita dei poveri che sempre di più somiglia ad un calvario. A Sanremo dunque volgarità e stupidità si sono date la mano.
Dall’altra parte dello stivale, Matteo Cosenza e Il Quotidiano, ancora una volta invece ci danno una lezione. Anzi, più lezioni in una. Di giornalismo, innanzitutto. Lo strumento cioè della democrazia che, in più parti del mondo, viene utilizzato contro la democrazia, quando non dice le cose, nasconde le notizie, e queste piega agli interessi dei poteri che contano. Egli ancora una volta non ci dice cosa dobbiamo fare della nostra vita. Ci porta invece a guardare con i suoi occhi di meridionale napoletano la realtà. A guardare oltre. Oltre il muro. Oltre quel che appare. Oltre la nostra consapevole e, perciò colpevole, ignoranza. Oltre la nostra pigrizia, specialmente quando essa si fa paura. Paura di noi stessi, della nostra capacità di ribellione, del nostro amore per la vita. Vita, che è quella degli altri, non la nostra. E amore per gli altri, non per noi stessi. Per la Calabria, quindi: per difenderla con le unghie e con i denti. Il suo ultimo editoriale, che sembra un parlare piano alle coscienze di tutti, ci porta una notizia. E ce la fa vedere plasticamente sopra l’inchiostro di parole stampate, che anneriscono le dita. La notizia è tre nomi di donna, che qualcuno aveva già letto da qualche parte.
La notizia si fa clamorosa quando egli li fa diventare, quei nomi, una sola donna. La donna calabrese, che in un campo per lungo tempo inavvicinabile (la famiglia ‘ndranghetista), ha inferto un colpo mortale all’immagine antropologica che sopravvive alla modernità. Quella della donna sottomessa al potere dell’uomo, di cui, nel silenzio e nell’obbedienza, resta moglie, amante, madre di figli a cui trasmettere il carattere genetico della famiglia d’onore, affinché in un domani ravvicinato essi stessi possano riceverne l’eredità criminale e culturale. Con la quale sottomettere altre donne, e formare, nei figli, altri ‘ndranghetisti.
E’ qui, in questa forza antropologica più che nelle imprese criminali devastanti, che si rafforza l’invincibilità della mafia nostrana, divenuta anche per questo l’organizzazione criminale più forte e più temuta del mondo. L’articolo di Cosenza rappresenta in qualche modo, a poche settimane dalla scomparsa, l’omaggio sincero a un’altra donna, che qui in Calabria, è scesa per liberare il suo giovane figlio, Cesare, sequestrato dai nostri galantuomini, che amano i propri figli e odiano quelli degli altri. Ricordate la lunga processione della signora Angela Casella lungo le strade e i vicoli dei piccoli paesi del reggino, e il suo bussare alle porte delle case? Ricordate il suo appello in una lingua italiana stranamente incerta? Si rivolgeva alle donne della ‘ndrangheta, mogli, sorelle, madri e figlie degli ‘ndranghetisti. Le invitava a ribellarsi ai loro uomini e a lottare contro la violenza.
E di più, a farsi educatrici, operatrici di riconversione al bene della volontà criminale. Giuseppina, Maria Concetta e le altre sono le nuove donne che dalla Calabria del male lottano per l’affermazione del bene. Sono, insieme, la nuova donna che darà forza a quell’altra donna di nome Paola, che vive sotto il terrore di essere uccisa per essersi, in chissà quale parte della nostra regione, ribellata al suo destino di schiava dell’odio e della violenza. Rinunciando consapevolmente alla loro vita (Lea andando coraggiosamente incontro ai suoi carnefici, non per ingenuità ma per liberare il cammino della figlia allora adolescente; Maria Concetta, procurandosela da sola, per evitare che la infliggessero ad uno solo dei suoi figli e Giuseppina, che ancora spera di salvare se stessa e le sue creature) hanno compiuto il più grande atto d’amore.
Da questa nuova donna nascerà (questa è l’altra notizia rivoluzionaria) la Calabria della pace e della libertà. Della bellezza e dell’eguaglianza tra gli uomini, liberatisi dal male. Che non è, giova ripeterlo, soltanto espresso, come taluni vogliono ancora far credere, dalla mafia tout court, ma da ogni forma di potere esercitato in violazione delle regole, contro la vita e la libertà delle persone. E per il misero proprio tornaconto personale o dei gruppi ristretti che lo portano sul mercato, dove si arricchiscono. Giuseppina, Lea e Maria Concetta hanno avuto bisogno di giudici intelligenti e sensibili che le ascoltassero, e qualcuno l’hanno trovato, anche se non è bastato a salvarle.
La nuova donna che è in loro, e da loro promana, ha bisogno di altre donne che non facciano più domande, ma una soltanto la pongano a loro stesse: cosa e quando potrò fare qualcosa per la vita, oltre a darla dal mio grembo? Antonella Dodaro con uno scritto intenso di umanità e ragione, ha già dato una prima risposta. Anche scrivendo.
Se altre donne facessero egual cosa, domani mattina, già un altro mondo scorgeremmo con gli occhi di lacrime e paura e speranza di Lea, Maria Concetta e Giuseppina.

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