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VENOSA – Un’incompiuta di mille anni, la prima della storia, e accanto un museo ancora più incompiuto, o meglio compiuto ma a mezzo servizio. Come arrivarci? Ma naturalmente passando sotto il viadotto (incompiuto anch’esso) lungo la Ss 653, detta Oraziana: volendo ironizzare si potrebbe dire che il III lotto della Bradanica e il cosiddetto Museo del Territorio siano quanto di più lontano esista dal “carpe diem” del poeta di Venosa. Benvenuti nel Vulture, pezzo di Lucania felix che sembra però maledetto da una specie di contrappasso poetico millenario: nessuno riesce a cogliere l’attimo e si galleggia in una indefinitezza diffusa. Museale e viaria.

Siamo nella vecchia Daunia, il territorio posto tra le future province romane Apulia e Lucania che elesse a suo centro nevralgico Venusia (fondata nel 291 a. C., scrive Dionigi di Alicarnasso, ospitava 20mila coloni romani): snodo di viabilità – un altro scherzo del destino cinico e baro – visto che qui si intersecavano due strade, l’Appia e la Erculea, che proprio da Venusia si generava per condurre poi a Grumento, dopo essere passata da Potenza e Acerenza. Bizantini, arabi, longobardi, normanno-svevi nei secoli fecero sedimentare un patrimonio di monumenti e conoscenze. Melfi fu la prima capitale del regno di Federico II, Palermo arrivò dopo. «Melfi e Venosa rappresentavano un polo ricco e florido – spiega l’archeologo Emmanuele Curti –. Il frumento rigoglioso ne faceva un granaio sconfinato che, non a caso, era zona di eserciti, dai tempi di Alessandro il Molosso, Pirro e Annibale fino alle crociate. Da qui partiva il grano che, secoli e secoli fa, riforniva la Grecia, visto che lì la crisi non è soltanto un fatto recente…».
Altri corsi e ricorsi che s’inseguono nei millenni. Ma l’intreccio più beffardo della storia è quello che ha voluto che proprio accanto all’incompiuta più antica d’Italia (la maestosa tomba privata costruita nell’XI secolo dalla famiglia Altavilla e mai terminata per assenza di fondi, monumento nazionale e meta di turisti in visibilio nella magnificenza dell’area di scavi appena fuori il centro abitato di Venosa) sorga il Museo del territorio, al piano di sopra dell’abbazia benedettina della SS. Trinità (V-XII sec.): attualmente quel primo piano è più silenzioso del monastero che ospitava, e dire che potrebbe essere un unicum dedicato ai Cavalieri di Malta, che succedettero ai Benedettini nel governo dell’abbazia della Trinità. Purtroppo, di “straordinario” per il momento ha solo le aperture che coincidono con eventi tipo la “Notte dei musei”: visite guidate e gratuite una volta l’anno dal 2013. «I computer che ci sono dentro stanno diventando archeologia industriale, quelli sì che sarebbero da musealizzare!», sorrideva Antonella Pellettieri del Cnr nei giorni scorsi trovandosi a passare di lì con una delegazione dell’Aipai (Associazione italiana patrimonio archeologico industriale) impegnata in un convegno nazionale al Castello cinquecentesco nel centro di Venosa.

Nell’abbazia che, si legge sul sito del MiBac, «rappresenta una delle più significative testimonianze storiche non solo della città oraziana ma della Basilicata intera», intanto, è già (ancora?) Natale: c’è il presepe delle prossime festività, o più probabilmente di quelle passate. È come se il “carpe diem” oraziano abbia congelato tutto in una atemporalità che dilata l’attimo all’infinito. Una pattuglia di turisti anglosassoni – che avevano deciso bontà loro di “allungare” da Pompei seguendo null’altro che l’antica via Appia – la settimana scorsa si aggirava tra le vestigia millenarie con uno sguardo a metà fra l’imbarazzato e il divertito alla ricerca di informazioni introvabili sui pannelli sbiaditi e dunque illeggibili; né gli ospiti armati di Reflex sarebbero stati più fortunati se avessero cercato dei depliant: benché in lingua italiana, infatti, almeno quelli si sarebbero letti, però erano finiti come ammoniva mestamente un totem di benvenuto all’ingresso, zona biglietteria. Nella chiesa, mossi a compassione, appena dopo il presepe ci offriamo per una traduzione maccheronica delle didascalie (che qui si leggono, in salvo come sono dagli agenti atmosferici implacabili nella zona esterna) ma il gruppetto di irriducibili sorride: per decifrare la genesi di quel favoloso mosaico basta osservare le figure e le date. E dire che in un altro polo federiciano, il Castello svevo di Cosenza, un restauro pubblico-privato con fondi Ue ha introdotto addirittura le audioguide — e addirittura funzionano! In ogni caso, i turisti sono così calati nella grande bellezza da ammirare con curiosità anche il manufatto di modernariato natalizio accanto alla tomba di Roberto il Guiscardo: i contenuti forse se li creano con l’immaginazione come facciamo noi con le canzoni non italiane, o magari li recupereranno su Google nel viaggio di ritorno.
Cronache di consumi culturali che gli aedi istituzionali della lucanità dovrebbero umilmente sperimentare, per farsi un’idea, tra un tavolo milanese e una presentazione romana: la Basilicata che stanno apparecchiando per il mega-evento del 2019 è tutto un tripudio di brand (l’altro giorno la Fondazione Eni ne ha addirittura nominato dei giovani ambasciatori), firme, protocolli (d’intesa e d’intenti), patti ecumenici e meno pretenziosi comunicati stampa dai toni comunque entusiastici.

A proposito di comunicati stampa, era il 2010 quando il consigliere regionale Francesco Mollica, nativo di Venosa, invocava «la valorizzazione di questo museo che è già pronto e che, con piccoli interventi potrebbe essere aperto al pubblico: ne deriverebbe un’importante ricaduta economica, ecco perché detta ricchezza non può più rimanere lì ferma e non fruibile»; Mollica cinque anni fa proponeva di «trovare soluzione all’apertura e alla disponibilità del sito che potrebbe fin da adesso cambiare nome e chiamarsi Museo ‘Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta» e invitava a «ricercare soluzioni utili con la proprietà attraverso la stipula di una convenzione, sia con la Soprintendenza dei Beni Archeologici per l’apporto tecnico-scientifico sia con la Regione Basilicata e l’Apt per ricercare ulteriori e appositi finanziamenti per il progetto che potrebbe, inoltre, essere rilanciato e sfruttato mediaticamente anche con un convegno scientifico internazionale da tenersi a Venosa». Rimase lettera morta.
Ed è uno dei paradossi del Vulture che una struttura nelle mani di ministero e Regione sia in stand-by mentre un’altra, provinciale, come il Museo di Storia naturale di Atella ospitato anch’esso in un’abbazia (quella di San Michele a Monticchio) attiri sempre più visitatori, forte dei 750mila anni di storia del vulcano e della meraviglia del doppio lago. Domenica scorsa per la FaiMarathon la cifra record di 553 ingressi.

Mettendo nel conto andature turistiche causa deviazioni e strade interne alternative ai cantieri, un ipotetico itinerario federiciano non può prescindere, oltre che dal famedio incompiuto degli Altavilla, dal castello di Melfi, ma merita una puntatina anche quello di Venosa (XV secolo), che calato com’è al centro della città la rende un unicum architettonico. Se poi si vuole virare sull’enogastronomico – mettendo anche qui nel conto di superare gli ostacoli di una viabilità fatta di saliscendi, piccoli lavori di manutenzione, curve e micro-frane in attesa della terza incompiuta del Vulture di cui sopra – ecco l’itinerario dell’olio (si chiama proprio Vulture la prima Dop lucana che unisce meritoriamente 16 produttori) e dell’Aglianico: dai più celebri marchi che innaffiano le tavole di tutti i giorni alle aziende che vincono premi nazionali e vengono segnalati dalle guide di settore fino ad arrivare a cantine come Grifalco, gruppo che ha venduto l’azienda a Montepulciano per trasferirsi nel Vulture.
C’è da scommettere che, in questo lembo di “Toscana meridionale” di vini buoni e verdi declivi, solo le strade non siano all’altezza. Da un comunicato della Provincia datato 2005 sulla strada di collegamento tra la Ss 658 (Potenza-Melfi) e la Ss 653 (Bradanica): «Si ribadisce ancora una volta l’importanza strategica dell’arteria per lo sviluppo del territorio, in quanto rappresenta un collegamento trasversale fondamentale che consente ai comuni interessati di essere collegati alle grandi arterie viarie come la “Potenza-Foggia” e la “Matera-Melfi”, uscendo così dall’isolamento che da tempo ha caratterizzato la zona. Auspico pertanto che si possa procedere con una certa celerità e che tutti gli Enti interessati facciano la loro parte per accelerare le procedure e gli iter autorizzativi necessari, come i pareri ambientali». Se i primi due lotti dell’arteria (7 km dalla 653 a Ripacandida) fuorono realizzati dalla Comunità Montana del Vulture in qualità di ente attuatore, per il terzo lotto (una galleria di 466 metri, il celeberrimo viadotto di 228 metri e uno svincolo a piani sfalsati a servizio dell’abitato di Ginestra) «si attende invece che la Regione Basilicata autorizzi una somma maggiore, per poi poter acquisire il parere ai sensi della L.R. 23/90 e quindi procedere alla validazione del progetto». Il viadotto, come noto, è ancora “sospeso”: proprio come lo è la regione, tra il mito dell’aeroporto di Pisticci e l’utopia della stazione ferroviaria a Matera, mentre più prosaicamente si possono impiegare ore, causa detriti come l’altro ieri, per arrivare nel capoluogo in treno sul maledetto Potenza-Battipaglia.

È l’altra faccia del progettificio-Basilicata: negli ultimi giorni abbiamo letto del Parco archeologico Magna Grecia – presentato a Roma e sponsorizzato in modo bipartisan, da FI al Pd a Sel fino a Confartigianato – e del piano “Terre di Aristeo” (per il Vulture-Alto Bradano), con la Basilicata unica regione, assieme all’Abruzzo, a cogliere l’offerta della legge 106/2014 grazie alla collaborazione tra privati e 15 amministrazioni comunali e la firma della convenzione Regione-MiBact: si va dalla banda ultralarga alla viabilità (96 bis e, manco a dirlo, Bradanica). Nel frattempo sono stati ultimati i lavori sulla Provinciale 149 Melfi Sata (700mila euro programmati e appaltati prima dell’estate), sono in fase di ultimazione o già completati gli interventi sulla Melfi–Rapolla (350mila euro) e i lavori sulla Barile–Rapolla–Melfi (200mila euro) e un altro mezzo milione è indirizzato alla viabilità interna. Stai a vedere che per il 2019 il viadotto non sarà più un’incompiuta. E magari servirà a raggiungere il Museo del Territorio aperto tutto l’anno. Un sogno? Sì, e siccome non c’è due senza tre magari prima o poi le tabelle degli scavi di Venosa saranno in doppia lingua. E soprattutto si leggeranno.

e.furia@luedi.it

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