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di GIANFRANCO MANFREDI*

Anch’io sono convinto che dalle testimonianze di Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola e Lea Garofalo arrivano spinte concrete al cammino di una Calabria che vuole liberarsi. L’aver associato i volti di Giuseppina, Cetta e Lea alla mimosa, è perciò un’iniziativa di grande sensibilità e intelligenza che aggiunge un valore alto all’ 8 marzo delle calabresi e dei calabresi di questo 2012. Fuori dalla stanca retorica delle celebrazioni, restituisce sostanza e connotati a una ricorrenza scolorita dal consumismo e sfigurata da cene e spogliarelli.
I tre esempi indicati da Matteo Cosenza sono un richiamo forte alla riflessione e all’impegno. A non cancellare la memoria di donne che hanno pagato caro, anche con la vita, il prezzo del loro coraggio e della loro ribellione (ce ne sono state tante, dimenticate, anche nei decenni passati…). E’ un appello a stare vicini e a sostenere quelle che stanno lottando per un destino diverso per i loro figli, madri-coraggio che per questo hanno infranto legami familiari, insieme ad intrecci importanti di sentimenti, affetti e passioni. E’ un monito a non lasciare sole Carolina Girasole ed ElisabettaTripodi, le prime cittadine di Isola Capo Rizzuto e Rosarno, bersagliate dagli attentati, lapidate dalle minacce più cupe.
Anch’io sono convinto che c’è tanto da fare su questo fronte, soprattutto per noi giornalisti. L’informazione può dare un contributo non secondario a quella rivoluzione della normalità, dell’onestà e dell’ordinario rispetto delle regole che urge in Calabria.
Le donne possono scardinare vecchie logiche e vecchi assetti. Sono determinanti e la riprova la fornisce il fatto che neppure la ‘Ndrangheta e le altre mafie, organizzazioni monosessuali e maschiliste, possono fare a meno delle donne – complici, prestanome, consigliere, intermediarie.
Nel nome di Giuseppina, Cetta, Lea e le altre, dunque. Per Lea Garofalo, alla quale oggi vorrebbero negare persino il rango di vittima di mafia, vorrei infine proporre una testimonianza di gentilezza e umanità. L’ha affidata, esattamente un anno fa, un’anonima lettrice , A.M., alla rubrica della posta di Vanity Fair. “La conobbi dieci anni fa – scrive – fui vittima di un incidente stradale e il primo volto che mi soccorse fu il suo. Ricordo la tenerezza con cui tentò di tranquillizzarmi, il suo affanno nel cercare il telefono nella mia borsa perché ‘Se chiamano dall’ospedale tua mamma si preoccupa”. La donna ricorda l’umanità di Lea (” Mi disse ‘non ti lascio sola’ e attese l’arrivo dei miei genitori”) e si rivolge alla figlia: “Un abbraccio grandissimo a Denise, che ricordo piccola e intimorita sotto il suo berretto bianco, nella speranza che la consapevolezza di aver avuto una mamma straordinaria riesca a darle un po’ di serenità”.
Già, Denise. Figura femminile cruciale della vicenda di Lea Garofalo, rischia di sparire come il suo volto nel cono d’ombra dei programmi di protezione. Non tutti, però, hanno dimenticato questa ragazza forte e fragile che è teste d’accusa nel processo per la morte della madre. Non l’ha fatto, significativamente, il Consiglio regionale della Calabria. L’anno scorso il presidente dell’Assemblea, Francesco Talarico, ha assegnato a Denise una borsa di studio voluta dalla Presidenza. Per sostenere la ragazza nella sua formazione scolastica, per aiutarla a pensare a un suo destino diverso.
*giornalista

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