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“Ho chiesto la fiducia per fare volare l’Italia. Non sarò il mediatore, ma il riformatore del Paese” queste parole il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è riuscito a dirle tra un nugolo di microfoni assediato dai giornalisti davanti a Palazzo Chigi. Qualche istante prima aveva provato a esporre una frase più articolata “promuovere gli investimenti per fare volare l’Italia” e aveva tutta l’intenzione di spendere qualche parola in più su ciò che può fare la differenza tra una nota di aggiornamento al documento di economia e finanza e una legge di bilancio che evitino sfracelli e il coraggio di girare pagina con il passato per mettere al centro gli investimenti pubblici e privati, a partire dal Mezzogiorno, e porre così le basi perché l’economia italiana torni a crescere davvero.

Nulla da fare, interrotto sul più bello, perché c’era da soddisfare la morbosa curiosità se si profilavano o meno sconti sulle commissioni per l’utilizzo di bancomat, carte di credito e moneta elettronica in genere. Per carità, curiosità e interesse legittimi. Così come lo è, evidentemente, sapere se verranno o meno disinnescate interamente le clausole di salvaguardia sull’Iva per 23 miliardi, se è vero che il deficit Pil si colloca al 2,2%, la crescita allo 0,6%, il debito/Pil al 135,2%, e che il risparmio sulla spesa per interessi (4 miliardi) ne riduce l’incidenza dal 3,6 al 3,4% del Pil, grazie all’uscita di scena dalla maggioranza di governo dei Salvini, dei Borghi e dei Bagnai con i loro demenziali proclami a intermittenza su mini-BOT e uscita dall’euro. Di sicuro è rilevante capire di quanto scenderà davvero il cuneo fiscale e da quando partirà, che cosa i lavoratori si ritroveranno in più in busta paga, perché in queste pieghe si annida la differenza tra l’ininfluente elemosina e un sollievo reale. Tutto sacrosanto.

Il punto è che se si vuole davvero fare volare l’Italia bisogna avere il coraggio non di fare un capitolo del DEF sul Mezzogiorno ma di scrivere sulla copertina che l’obiettivo strategico della legge di bilancio 2020 e di quelle a venire è il riequilibrio territoriale e che si affronteranno i due nodi strutturali della spesa per infrastrutture e dell’assistenzialismo delle Regioni, da Nord a Sud, che dissipa risorse e blocca tutto.

Questo linguaggio della verità è quello che si addice a un Presidente del Consiglio che vuole fare rialzare la testa a un Paese fortemente diseguale con un Pil pro capite delle regioni meridionali pari alla metà di quello del CentroNord e un tasso di disoccupazione prossimo al 20% e, quindi, sostanzialmente il doppio di quello del resto del Paese. Questa è l’Italia di oggi che deve rialzare la testa, non altre, per cui si deve solennemente prendere atto che dopo dieci anni di esproprio di risorse pubbliche operato dal Nord a spese del Sud ci troviamo con un treno a alta velocità Milano Torino ogni venti minuti e zero treni veloci da Napoli a Reggio Calabria o da Napoli a Bari, ma non perché le Regioni del Nord sanno spendere e quelle del Sud sono incapaci ma semplicemente perché i soldi pubblici sono stati indirizzati tutti da una parte e tolti tutti dall’altra. Chiaro?

O queste cose si cominciano a dire o ci stiamo prendendo in giro. O si scrive nero su bianco che la manovra di bilancio si muove su una logica pluriennale e parte da investimenti pubblici e privati o, ancora una volta, parliamo del nulla. O si fa in modo che ciò che si scrive diventi realtà e, quindi, la si smette di invitare ipocritamente le classi dirigenti locali, soprattutto quelle meridionali, a cogliere le opportunità e si indicano invece centrale unica di progettazione, poteri speciali e opere prioritarie in modo da aprire in tempi certi i cantieri e porre le condizioni perché i lavori si concludano in tempi ragionevoli, o ancora una volta ci stiamo tutti colpevolmente prendendo in giro. O si dice con esattezza e si mettono i numeri relativi nelle tabelle giuste su quanto e come si intende dare a titolo di credito di imposta, su quanto e come si intende dare per allargare le zone economiche speciali (Zes) al Sud non al Nord, per stimolare gli investimenti privati nelle regioni meridionali, o ancora una volta si sta facendo il male dell’intero Paese, a partire dai suoi territori più ricchi, condannando tutti alla marginalizzazione da assistiti colonizzati nel Lombardo-Veneto e da poveri alla deriva nel Mediterraneo egemonizzato dai francesi le popolazioni meridionali.

Queste cose vanno dette a voce alta e si devono tradurre in atti di indirizzo e in scelte di politica economica coerente. Non si può spostare un Paese dal galleggiamento, più o meno riuscito, degli ultimi venti anni alla sua seconda ricostruzione, senza misurarsi con il tema impopolare dell’allocazione delle risorse e della capacità di spesa che sono i due mali storici italiani e da qui al 20 ottobre quando si avrà la legge di bilancio vera e propria bisognerà dimostrare per tabulas di avere affrontato e avviato a soluzione, in chiave pluriennale, i due nodi strutturali. Alla voce risorse e alla loro programmazione a lungo termine e alla voce macchina pubblica di spesa (erogazione) è legato l’allentamento del cappio che stringe al collo l’Italia, ne frammenta i destini, e ci condanna più di ogni altro Paese europeo all’impoverimento.

Il cammino per fare le cose perbene è già stato tracciato da un uomo che sa fare di conto ma anche guardare lontano. Si chiama Daniele Franco, già Ragioniere Generale dello Stato, oggi vicedirettore generale della Banca d’Italia in odore di promozione. Ha affrontato il problema a partire dalla legge di bilancio 2017 con una prospettiva triennale che ha riguardato anche le leggi di bilancio 2018 e 2019. Esattamente come la legge di bilancio 2020, con il Draft budgetary plan da inviare in Europa entro il 15 ottobre e la sua presentazione alle Camere entro il 20, si proietta in un arco triennale e permette, dunque, se lo si vuole per davvero e se ci sono le condizioni politiche, di cambiare indirizzo e incidere concretamente sui tassi di crescita reali. La parola chiave si chiama Fondo Pluriennale, ideato da Franco, diretto a svilupparsi addirittura su 15 anni con una dote da 120 a 150 miliardi e che si articola di anno in anno, con stanziamenti di competenza (meno rilevanti) e previsioni di cassa su indebitamento netto (qui si fa sul serio).

La logica di questo disegno pluriennale era di sottrarre l’impiego delle risorse pubbliche alla estemporaneità e di dare ai soggetti di spesa una prospettiva che consente di aiutare l’amministrazione a programmare. Lo strumento ha funzionato meno di quello che ci si aspettava, si procede più lentamente di quello che si impegna, e si è arrivati a stabilizzare un flusso di 3 miliardi l’anno, ma si sono almeno poste le condizioni effettive perché si cominci dal 2022/2023 a stabilizzare un erogato annuo di 8/9 miliardi. Se Conte vuole fare sul serio, e non dubitiamo che queste siano le sue intenzioni, si dica al gestore della rete ferroviaria e a chi guida l’Anas, ma anche per le altre reti materiali e immateriali, che nei prossimi dieci anni si realizzano i programmi infrastrutturali che riguardano il Sud a partire dall’Alta Velocità e Alta Capacità ferroviaria Salerno Reggio Calabria, fino a Palermo/Augusta, e da Napoli a Bari. Nei testi ci deve essere scritto Progetto strategico Italia e nelle tabelline ci devono essere i flussi anticipati che il Fondo Pluriennale riuscirà a stabilizzare e che presumibilmente saranno, di anno in anni, sempre crescenti rispetto all’obiettivo già conseguito di 8/9 miliardi. Se nel frattempo si convocassero i vertici della Rai, la prima azienda culturale del Paese, e si facesse presente che la vergogna di destinare al Mezzogiorno d’Italia una media del 10% di investimenti in conto capitale mentre ci si pappa i proventi del canone e si fanno ascolti in quelle Regioni sarà oggetto di valutazione delle magistrature contabili per il passato, ma che abusi simili per il futuro non saranno più tollerati, di sicuro si darà un contributo serio alla crescita economica e civile dell’intero Paese.

I due capitoli chiave, Iva e contanti a parte, si chiamano spesa per infrastrutture e riequilibrio territoriale, ma questo non perché a noi piace così, ma perché spezzare la spirale perversa degli egoismi da federalismo all’italiana è indispensabile se si vuole fare tornare “l’Italia a volare”. Non siamo stati capaci né di spendere né di programmare decentemente le decine e decine di miliardi del programma 2014/2020 di fondi comunitari. Si adotti la regola Ciampi del 45% e si affianchino queste risorse a quelle stabilizzate su 15 anni dal Fondo Pluriennale e si recuperi la forza d’urto degli interventi pubblici che ha caratterizzato l’Italia degli anni del Miracolo economico e della sua prima ricostruzione. Non esistono alternative se si vuole fare sul serio. Si aggiunga a questa mobilitazione di capitali pubblici una ritrovata capacità di attrazione di capitali privati non disperdendosi in mille micromisure, ma concentrandosi piuttosto su un sostanzioso credito d’imposta e su una fiscalità di favore certa come le Zone economiche speciali (Zes) con le quali si consiglia di largheggiare. Questo metodo e queste scelte significano affrontare seriamente la priorità economica del Paese, il Mezzogiorno, e restituire al Nord popolato sempre più da contoterzisti e subfornitori la ciambella di salvataggio di un rianimato mercato interno che permetta loro di tornare a vendere in casa i propri prodotti e guadagnare un po’ di tempo per fare i conti onestamente con le loro infinite inadeguatezze.

La Germania, con tutte le sue rigidità, farà molti più investimenti pluriennali che negli anni scorsi e sosterrà la sua domanda interna cosa che a noi non potrà fare che piacere, ma deve essere altrettanto chiaro che se i tedeschi fanno più infrastrutture e le loro imprese più innovazione, a maggior ragione dobbiamo farlo anche noi. Altrimenti il divario aumenta e rischiamo di ritrovarci a fare i conti con una Germania ancora più competitiva. Soprattutto sul tema ambientale dovremmo essere noi attenti a non rimanere ulteriormente indietro perché se già oggi le prime aziende dei nostri distretti industriali sono molto spesso filiali di multinazionali estere, c’è il rischio concreto che anche i nostri subfornitori di qualità vengano rimpiazzati da aziende di altri Paesi più dinamici e più competitivi nei costi.

Non vorremmo mettere troppa carne al fuoco, ma anche in questa prospettiva prima chi governa comincia a fare i conti con i disastri del regionalismo italiano, il peccato mortale dei suoi stipendifici e dei suoi costi generali, per non parlare dell’assistenzialismo clientelare che riguarda Sud e Nord, e prima si recupera la speranza di rimanere in qualche modo legati al carro dei Paesi più avanzati dell’Occidente. Facciamo rumore anche per uno 0,1 in più o in meno di commissione bancaria, per una soglia e l’altra di aliquota Iva, ma se vogliamo far ripartire davvero i consumi interni dobbiamo assicurarci una macchina amministrativa che sappia non solo programmare ma attuare con celerità gli investimenti pubblici e attrarre capitali privati. Questa è la strada obbligata per l’Italia, bisogna cominciare a dirlo in modo netto e forte. La lunga stagione delle scorciatoie elettorali, sovraniste o che dir si voglia, è finita per sempre. Almeno si spera.


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