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 Il «grido d’allarme«lanciato oggi, al centro oli di Viggiano (Potenza), dai dirigenti dell’Eni – che teme di essere costretta a rivedere la sua politica di investimenti a causa dell’«eccessiva irragionevolezza nel prolungarsi delle procedure» per varare nuovi progetti – è una vera novità nell’ormai lungo rapporto fra compagnie petrolifere, Regione Basilicata, enti locali e ambientalisti.

Una novità e un cambio di rotta, bisogna aggiungere.

Attualmente la situazione è questa: la concessione Val d’Agri prevede 40 pozzi (27 già in produzione) e cento chilometri di condotte per portare gli idrocarburi al centro oli di Viggiano sul territorio di otto comuni; una produzione di 85 mila barili di petrolio e 3,5 milioni di metri cubi di gas al giorno; 2.800 posti di lavoro. Ma il protocollo d’intenti del 1998 e il «programma lavori» prevedono una produzione di 104 mila barili di petrolio al giorno da raggiungere attraverso otto pozzi ancora da perforare e collegare al centro oli; il collegamento al centro oli del pozzo reiniettore esistente «Monte Alpi 9»; 350 milioni di euro di investimenti e 220 milioni di costi operativi nel 2014, ma «i ritardi negli iter autorizzativi mettono a rischio i programmi di sviluppo».

Oggi, incontrando i giornalisti, il responsabile del distretto meridionale di Eni, Ruggero Gheller, e il responsabile delle relazioni locali con enti e istituzioni, Francesco Manna, hanno fatto l’esempio del pozzo «Pergola 1», da perforare a Marsiconuovo (Potenza): sarà profondo poco più di quattro chilometri e l’iter autorizzativo, andato avanti dal 2009 al 2013, si è concluso positivamente. Invece, l’iter autorizzativo per realizzare il collegamento del pozzo al centro oli (otto chilometri di condotta a circa due metri di profondità) è cominciato nel dicembre scorso. 

L’Eni – che ha calcolato un investimento complessivo di 50 milioni di euro per pozzo e collegamento al centro oli – teme che lentezze e ritardi possano mettere in pericolo lo sfruttamento complessivo del giacimento Val d’Agri. Nel 2013, la compagnia ha versato diritti di sfruttamento pari a 160 milioni di euro, che aumenterebbero di
30-40 milioni (secondo calcoli ancora necessariamente approssimativi) con gli otto pozzi in più. 

Ma la questione è più profonda, secondo l’Eni: smettere di «curare» un giacimento, infatti, smettere di «coltivarlo», smettere di perforare altri pozzi per tenerlo «in equilibrio», porta ad un suo deterioramento, cioè a trovarvi meno petrolio e quindi a versare meno diritti di sfruttamento. 

Per sottolineare la consapevolezza dell’importanza – d’altro canto – dei problemi ambientali, Gheller e Manna hanno spiegato che l’Eni, che già dispone sul centro oli di Viggiano di dati sul ciclo industriale «in quantità non paragonabile ad altri impianti del genere», è pronta a condividerli in ogni sede, in ossequio alla «trasparenza, che però – hanno spiegato i due dirigenti – deve essere reciproca, nel senso che è trasparenza anche un procedimento amministrativo che, ad un certo punto, deve concludersi, in un modo o nell’altro. 

Vi sono casi in cui una licenza edilizia, quindi un atto finale rispetto ad una procedura superata positivamente – hanno concluso – diventa la ‘Corte di Cassazionè del procedimento stesso, nel senso che ci vorrebbe obbligare a rifare proprio il procedimento, cosa oltretutto ingiusta per chi vuole realizzare un investimento che avrà una ricaduta enorme e prolungata sulle potenzialità di sviluppo di tutta la zona». *(ANSA).

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