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Leonardo Sinisgalli chiamò se stesso, in una sua poesia romana, musulmano. È un fatto che può provocare vertigine, se solo si pensa che il poeta-ingegnere, malgrado i tratti fascinosamente semitici del volto, giunse a Roma non dal Maghreb, ma da Montemurro, dal cuore della Basilicata, da quella sua desolata provincia dove dimora, come scriveva in “Lucania”, lo spirito del silenzio. Non è l’Islam a muovere guerra all’Occidente. Sono ragioni politiche – è ormai sempre più chiaro – ragioni non religiose a fomentare la violenza dei facinorosi siro-iracheni. Ma con ciò, nondimeno, si eleva il rischio, avallato dalle più intemperanti ed improvvide parti politiche italiane, che l’Islam venga percepito nel senso comune come una religione geneticamente violenta e da sempre a noi ostile – il che non è, storicamente, vero, se si prescinde dai facili cliché da manuale scolastico. E non è fondato il marchio di estraneità, di alterità radicale col quale spesso bolliamo l’Islam, come dimensione religiosa e culturale: poiché al contrario esso è stato parte importante della storia, soprattutto, del nostro Meridione. L’Islam ci appartiene, almeno un po’. Basterà dire che la prima, antica descrizione analitica che possediamo della Basilicata si legge nell’opera di un geografo islamico. Per non parlare dell’avventuriero arabo Luca di cui ci racconta una pergamena greco-bizantina di Tricarico. Ad un tiro di schioppo da Montemurro, quasi sulla costa ionica, c’è Tursi, con la sua rabatana, il suo groviglio di strade che trae il nome dall’arabo ribat. Sinisgalli aveva buone ragioni, insomma, per dirsi “musulmano”. Lo fece per la prima volta ne “I nuovi Campi Elisi”, raccolta di scritti tra il 1942 ed il ’46, in una poesia, “Elegia romana”, che è una dichiarazione d’amore alla città eterna. “Fui un giovane letargico/ che si nascose a leggere nei tuoi giardini/ in compagnia delle statue” e trapela nei versi l’intimità, la connessione quasi uterina tra la città ed il poeta. “Cercai le funebri siepi del Celio/ per pascere il mio tedio/ di musulmano avido di odori”. Qui, nella intimità si apre una crepa; nella città santa, piena di scritte bianche di angeli calligrafi, dove Santa Teresa “ha il manto che trasuda/ quando a settembre lo scirocco/ risale dalla costa africana”, Leonardo è un musulmano, avido di odori. E domanda all’Urbe: “Chi avrebbe potuto battezzarmi/ alla tua fede, frustare i miei panni/ quale Vergine poteva carezzarmi i capelli/ quale Benedetto, quale Pio/ avrebbe accettato il dono dei galli/ ch’io portai nel paniere?”. Appartenenza ed estraneità, in questi versi, sembrano rincorrersi e confondersi. E il nodo ritorna, dieci anni dopo, in “San Pietro”, del 29 giugno 1957, durante la festa più importante di Roma: “Una volta all’anno/ anche i mammalucchi/ si bagnano la punta delle dita/ si segnano la fronte e il petto”. Ma lui no, Leonardo resta, nella città, straniero: “Mi sono assopito nella vasca/ da bagno e a stento/ riesco a tirarmi su/ A fatica riesco a vivere. J’ai lu/ tous le livres”, mentre una formichina scende dal Cupolone per arrivare sulla sua scrivania, sotto il suo portacenere. Il poeta sembra suggerirci che il confine tra la intimità e la estraneità più profonde sia in realtà molto più labile di quel che si è soliti pensare.

È un pensiero che era già, diversamente declinato ma intatto nella sostanza, in una delle più belle, forse, delle sue poesie: “Chi ama non riconosce, non ricorda, trova oscuro ogni pensiero, è straniero a ogni evento”.

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