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Essendo Melfi la location, si potrebbe ironizzare dicendo che chiamare “macchine” la droga era di certo la cosa più immediata. Fatto sta che l’artificio linguistico “automobilistico” risulta il più frequentato, a leggere le 65 pagine di ordinanza con cui la Dda di Potenza riassume oltre due anni di indagini che hanno portato all’esecuzione di 29 arresti e un obbligo di firma. Sono nomi e volti che si rincorrono in scambi di sms e conversazioni, come quella Barbetta-Spadone nel corso della quale la droga è “pericolosa” proprio come un’auto, ma poi uno degli interlocutori scivola sul verbo: “assaggiare” invece di guidare… Per gli investigatori è un lapsus che spiegherebbe inequivocabilmente l’oggetto della telefonata. Poco più avanti si parla di una “Mercedes” e di altre “macchine” da provare, ma la chiave di lettura sarebbe da considerarsi anche qui criptata.
Dove il bianco non è da riferirsi al colore di un’automobile ma alla sostanza stupefacente è in una conversazione telefonica del 10 giugno 2013: Teodoro Barbetta – si legge sempre nell’ordinanza – entra “in possesso di un cospicuo quantitativo di sostanza stupefacente, con ogni probabilità del genere cocaina” e la sniffa. Se poi la droga non è buona, riecco il registro della “macchina” che in questo caso “brucia olio”; salvo poi non usare mezzi termini – “che dobbiamo ucciderli i cristiani?” – una volta appurata la scarsa qualità della sostanza.
Altre volte Barbetta invita i clienti a “recarsi a Melfi per fargli visionare una Fiat Punto Verde (che un cliente del suo autosalone sarebbe stato interessato ad acquistare)”: gli inquirenti annotano in questo caso che il colore andrebbe ricondotto al tipo di sostanza, cioè marijuana.
Quando Addolorata Lotti è costretta a “ingerire lo stupefacente consegnatole poco prima” dopo un controllo delle forze dell’ordine legato alla restituzione di una “partita scadente di stupefacente acquistato qualche giorno prima”, siamo sempre nel giugno di due anni fa, la donna è preoccupata “per eventuali conseguenze letali” e chiede “rassicurazioni al riguardo al Barbetta (nella conversazione si usa il termine gallina, tuttavia è evidente che nessun animale risulta essere stato consegnato dalla visione dei filmati, né tanto meno sarebbe stato possibile mangiarla in macchina)”.
Negli sms, poi, gli stilemi della comunicazione veloce producono l’effetto straniante di essere adattati alla condotta criminale: “Quella cosa ke ti interesava a te”, al netto di refusi e italiano zoppicante dovuto forse alla nazionalità dei due indagati (albanesi) cui è riconducibile l’utenza telefonica, altro non è che un’arma: si tratta della semiautomatica 7.65 messa in vendita a San Severo.
Altri “dialoghi sono pieni di termini allusivi (preventivo, carte, etc.)” e, in ogni caso, sulla “inverosimiglianza del linguaggio allusivo utilizzato” gli investigatori non hanno dubbi: “Non è credibile – scrivono nelle pagine conclusive dell’ordinanza – che, come emerge dalle conversazioni intercettate, le persone indicate come acquirenti abbiano tutte bisogno in tarda serata o addirittura in piena notte che il Barbetta o sua moglie diano loro le ‘chiavi’ o le ‘chiavette’. Ulteriori elementi fortemente indizianti offerti dalle conversazioni intercettate si ricavano da alcuni dialoghi in particolare”: in un caso, decadono tutti i filtri e il ricorso al registro stilistico “allusivo” e, forse a causa della concitazione della conversazione, si esclama “intanto sta lavorando lui e mi sa che dobbiamo fare noi gli spacciatori qua” (Teodoro Barbetta commenta con un interlocutore ignoto l’attività criminale di un terzo soggetto, forse Aniello Barbetta, a Rionero in Vulture). Quando il gioco si fa duro, non c’è codice che tenga se non quello della chiarezza. O della violenza.

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