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MIO figlio, che ha dieci anni, stamattina mi ha domandato: «Dove andremo a finire, dopo morti?».

E me lo ha domandato mentre seguiva in televisione le cronache sulla strage di Parigi. Come al solito, ho risposto in maniera confusa, mescolando malamente consolazioni cristiane ed epicureismi a buon mercato. A quel punto, mio figlio si è ammutolito, e ha iniziato a piangere: «Papà, ma che senso ha la nostra vita se poi tutto finirà con la morte?».

L’ho buttata sul comico, come spesso faccio di fronte a temi “impossibili”, e sono riuscito a distrarlo; eppure, dopo qualche minuto, guardandolo giocare assorto con la PS Vita, non ho potuto fare a meno di legare il nascente nichilismo razionalista-scientista di mio figlio al fanatismo utopistico dei giovani terroristi islamici.

Sta sfuggendo a molti che questi giovani terroristi, che da anni stanno seminando morte e disperazione in Europa, sono, appunto, europei, e dell’Europa rifiutano principalmente due cose: la marginalizzazione socio-culturale a cui li espone la loro povertà (che a catena provoca senso di inferiorità e istinto revanscista) e il tramonto delle fedi e delle utopie. Renzo Guolo, assai intelligentemente, ha definito questo movimento sotterraneo e tellurico “l’ultima utopia”.

Noi europei, a un livello molto profondo della coscienza, non crediamo più né a fedi né a utopie, e viviamo il presente affidandoci comodamente (rimuovendo la disperazione) a valori terrestri e non metafisici quali la civiltà, il diritto, il benessere. Ma il tema di Dio e della totalità, inutile non ammetterlo, per noi è un capitolo chiuso, perché, appunto, sentiamo intimamente che dopo la morte non c’è nulla.

Storicamente, i giovani sono sempre apparsi sulla scena “pubblica” con impeto palingenetico e con furore utopistico (quante volte in passato abbiamo dibattuto se fosse corretto equiparare i terroristi ai comuni criminali?). Oggi, tutto questo, non accade più, perché la secolarizzazione e la laicizzazione vengono ormai trasmessi spontaneamente da noi genitori disincantanti e disillusi. Ma qualcuno, evidentemente, ce lo rimprovera, e reagisce a questa “mondanità” con quell’eterna religione della morte che è il sintomo estremo di una domanda radicale di eternità.

Faccio una pura considerazione fattuale: i giovani terroristi islamici europei hanno una ragione per morire e per far morire gli altri. E questo non è un dato trascurabile al quale si possa esclusivamente rispondere con la repressione e con la guerra. Infatti nessuno, in queste ore di sgomento e di rabbia, ha provato almeno a immaginare cosa muova il cuore e la testa di un giovane – ripeto, europeo – nel mentre si fa saltare in aria gridando con disperata estasi “Allahu Akbar!”.

Inutile girarci intorno: per noi la tolleranza, la laicità, lo scetticismo e il relativismo – la totale negazione della metafisica – sono dati intimamente consolidati, e a nulla varrebbe il tentativo di vivere come se ancora in noi ci fosse la certezza della totalità, ovvero di Dio. Eppure questo radicalismo sanguinario ci deve interrogare, anche se non mi sfugge che ammetterlo è doloroso e complicato.
Pure gli amici più accorti e consapevoli della complessità geopolitica del momento, in queste ore mi ripetono sempre la stessa cosa: «Bisogna sterminarli senza pietà, ucciderli tutti». E io, a un livello molto epidermico, condivido questo proposito. Ma poi c’è una parte di me che si domanda in che modo quest’Europa così appiattita sul tema economico e finanziario, e così cinica e indifferente rispetto a temi quali la marginalità dei “nuovi europei” (marginalità che Tahar Ben Jelloun definiva “estrema solitudine”) e il tramonto di tutte le fedi e di tutte le utopie, si stia approcciando ai giovani di oggi, i quali, in assenza del valore-cardine del benessere, si trovano spesso in balia di frantumazione identitaria, nostalgia di una totalità e di una tradizione certa alla quale ancorarsi, esclusione rancorosa, tirannia tecnologica e delirio onirico di distruzione. La religione fondamentalista, com’è evidente, è soltanto il sintomo visibile di un disagio più profondo, e che solo per comodità definiamo terrorismo.

Sarà anche un paradosso, ma io penso che i cosiddetti “foreign fighters” siano anzitutto un problema europeo, e che interroghino profondamente il nostro grigiore tecnologico-finanziario e la nostra monocultura del benessere (alla quale siamo giunti, non dimentichiamocelo mai, attraverso un lungo percorso finanche metafisico). Non sto dicendo che l’Europa è colpevole di questo terrorismo euro-islamico; sto dicendo una cosa ben più profonda, ovvero che questi terroristi sono nostri figli – nostri in quanto europei – e come tali dobbiamo farcene carico, interrogarci, provare ad allargare le opportunità di confronto, di ascolto e di inclusione, consapevoli che dietro la parola “Allah” ci sono molte più cose di quel che noi pensiamo superficialmente.

Dobbiamo intensificare i momenti di ascolto e di confronto senza paura o isterie, confrontare sinceramente valori e prospettive, provare a tirare fuori l’anima europea – laica, tollerante, liberale, pluralista – confrontandoci costantemente anche con chi ci sbatte in faccia l’oscurantismo utopistico più feroce e distruttivo. Sono giovani europei, questi seminatori di odio, e l’IS c’entra e non c’entra. Il fatto che abbiano ucciso dei loro coetanei è indicativo di un rancore “materialista”. La repressione militare non basta se non ci domandiamo senza infingimenti se una società possa reggere in assenza di una causa assoluta per la quale morire (e i giovani ci chiedono questo, anche quando tacciono, in apparenza persuasi). C’è una domanda di totalità in Europa alla quale non riusciamo a dare una risposta, e la composta tristezza di mio figlio di fronte alla prospettiva del nulla non è così distante, in termini spirituali, dal furore distruttivo di chi dà un senso alla propria breve esistenza suicidandosi in nome di Allah e trascinando con sé nell’inferno della frustrazione decine e decine di innocenti.

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