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di MATTEO COSENZA Ci viene chiesto da più parti che cosa stiamo organizzando per l’8 marzo. La risposta è molto semplice ed è quello che state leggendo da giorni: un’ampia discussione pubblica, fatta di idee, proposte, riflessioni, critiche e impegni. Quando abbiamo proposto di dedicare a Giuseppina, Lea e Maria Concetta questa data simbolica per ricaricarla di valori e significato, indicando in “Tre foto e una mimosa” il modo concreto per darne tangibile testimonianza, non abbiamo immaginato un nuovo corteo come quello indimenticabile del 25 settembre 2010 a Reggio bensì tante spontanee e diffuse iniziative in ogni angolo della Calabria. Sappiamo che si stanno preparando anche importanti eventi, come sta facendo la Cgil a Catanzaro, ed altri si annunciano, ma proprio perché in Calabria sono purtroppo evidenti la crisi generale di credibilità della politica e il vuoto diffuso di partecipazione, non si può pensare che un giornale, che fa un altro mestiere, possa supplire a carenze così vistose. Piuttosto è bene che si accendano mille fuochi, che vi sia una presa di coscienza spontanea e collettiva, che si producano tante piccole e grandi iniziative perché quel giorno serva innanzitutto a quelle donne che sulla propria pelle hanno ingaggiato una battaglia di verità, giustizia e dignità nell’interesse di un’intera comunità, e a tutte le donne calabresi che devono trovare il coraggio, lo stimolo, la forza e l’intelligenza di scendere in campo per costruire una nuova Calabria. Una Calabria serena e felice non è possibile se non si infrangono codici e mentalità che umiliano le persone, le rendono schiave e le “puniscono” ferocemente se appena rivendicano un minimo di rispetto. E le donne, da sempre emarginate dal “potere” e, quindi, meno “corrotte” dall’esperienza e dalle abitudini, che presto diventano cattive, dei maschi, hanno dentro di sé più motivazioni, più voglia, più necessità, più freschezza, anche più rabbia per poter cambiare le cose. La loro bellezza, che è un dono fatto all’umanità da chissà chi, non è solo fisica, essa è straordinaria anche per questo scrigno di valori ed è ora che dappertutto la responsabilità delle cose del mondo sia davvero divisa a metà. Per questa dolente Calabria loro sono la risorsa più importante. Il cammino è difficile e, temiamo, lo sarà ancora di più nel prossimo futuro. Segnali di ritorno al passato già si intravedono. Forse in alcuni circoli reggini si sta brindando a champagne di marca per la partenza di uomini dello Stato che in questi ultimi anni avevano acceso la speranza di una svolta positiva sul fronte della legalità e della giustizia. E se alcuni non elevano al cielo i loro calici è solo perché non sanno ancora con certezza chi verrà a sostituire chi se ne va. Intanto, mentre le donne dei detenuti manifestano contro i giudici davanti al palazzo di giustizia di Reggio, si svolgono stucchevoli discussioni e polemiche sull’esistenza o meno della ‘ndrangheta. Si passa da un eccesso all’altro – ora tutto è ‘ndrangheta, ora la ‘ndrangheta non esiste -, e naturalmente puntuale torna il ritornello sui professionisti dell’antimafia e sulle ricadute anche pecuniarie che deriverebbero da questa attività. E’ una discussione, questa, crediamo molto gradita alle cosche, perché non c’è migliore situazione di quella delle divisioni e della confusione nel fronte nemico, che dovremmo essere noi, la cosiddetta società legale. La regola aurea è rifuggire dalle generalizzazioni. Per esempio, sicuramente non sono solo uomini della ‘ndrangheta quelli che in un anno bruciano oltre settecento auto (due al giorno) nella città di Reggio, probabilmente ce ne saranno tanti che considerano una sorta di diritto civile regolare i propri rapporti con gli altri (uno screzio, un’offesa o anche una pratica assicurativa) in questo modo. Mi è rimasta impressa nella memoria la frase di un inquirente esperto che indicandomi una lunghissima strada reggina mi disse: “Vede, qui il 70 per cento dei negozi è della ‘ndrangheta, il 30 per cento paga il pizzo”. Si potrebbe continuare a lungo con esempi, numeri, percentuali, casistiche, e si potrebbe chiudere la questione elencando le inchieste per estrapolare solo quelle che si sono concluse con i processi e le condanne degli inquisiti (quasi tutte così negli ultimi quattro anni a Reggio). Forse è meglio dire: non tutto è ‘ndrangheta ma la ‘ndrangheta purtroppo esiste ed è un cancro che rovina in ogni caso la nostra vita e l’identità della Calabria. Io tenterei di rappresentare la Calabria in un modo diverso, dividendola in quattro spaccati. Ci sono i “militari” della ‘ndrangheta. Sono molti soprattutto in rapporto al ruolo che svolgono. Ogni cosca ne vanta centinaia, alcune perfino migliaia. Che diventano una potenza quasi invincibile quando si concentrano in territori limitati, anche città di cinquemila, diecimila, quindicimila abitanti. Qui il rapporto è talmente squilibrato che di fatto si può parlare di vera e propria occupazione militare. Sono i dipendenti diretti della ‘ndangheta, regolarmente pagati, protetti da “ammortizzatori sociali” anche in caso di sventure. Viene poi la zona grigia, quella che un magistrato di grande valore che l’ha studiata come pochi altri, Michele Prestipino, chiama la “terra di mezzo”. Per quanto mascherata in grisaglie e doppiopetti e nascosta nei gangli vitali dello Stato, delle imprese e della società, essa non solo è diffusa ma è davvero funzionale alla ‘ndrangheta militare, che sarebbe poca cosa se non potesse avvalersi di questa alleanza fondamentale per realizzare i propri affari e garantirsi il potere. La terza area possiamo definirla con un termine dal suono stridente: quello della ‘ndranghetosità (fa il paio con la mafiosità o la camorrosità). E’ fatta di persone che non hanno nulla a che vedere con la ‘ndrangheta, non hanno alcuna relazione con essa. Siamo noi. Persone normali, possiamo dire perbene, che svolgiamo la nostra vita mai immaginando di poter entrare solo in contatto con la malavita organizzata. E allora perché abbiamo richiamato quella parola così indigesta? Perché quest’area, che non è “grigia”, rappresenta il grande humus culturale nel quale germoglia e cresce la ‘ndrangheta. Ci riferiamo a tutti quei comportamenti, anche minimi, che stravolgono in qualche modo le regole della convivenza civile. Per dirla in altro modo, è il mancato rispetto delle regole che ara e concima il terreno per renderlo fertile fino al passaggio quasi sempre senza ritorno al crimine organizzato o all’accettazione dell’esistenza, tutto sommato ritenuta inevitabile, della ‘ndrangheta. Perché la violazione anche delle regole più semplici determina abusi, diseguaglianze, prepotenze, sopraffazioni, ingiustizie, invivibilità. Chi non rispetta un semaforo non si sogna nemmeno di commettere qualcosa di grave. E lo stesso vale se si aggira una fila o si pensa che una raccomandazione possa agevolare il rilascio di un certificato o la conquista di un prezioso posto di lavoro. Per non dire dei rifiuti depositati dove fa più comodo, fuori dai cassonetti e negli orari non deputati, su un bel prato verde o in un mare limpido. Fino a pagare consapevolmente il pizzo sapendo che così si vive tranquilli. La scala di importanza di un’infinità di comportamenti quotidiani è variegata ma tutti gli scalini portano a quella generale idea, a quel senso comune che in fondo la cosa pubblica non ci appartiene e che vale soprattutto il proprio interesse particolare. Non siamo “noi” ma solo e sempre “io”. Il quarto spaccato comprende quelli che hanno rispetto per sé e per tutti gli altri, che danno un senso preciso ad ogni cosa, riescono a tenere sempre coniugati sentimenti e ragione, che non fanno i propri comodi fregandosene degli altri, che si preoccupano non solo di tenere l’uscio di casa pulito ma che anche la strada, bene di tutti, lo sia. Non so e non credo che ci sia qualcuno in grado di definire i volumi di questi quattro spaccati di società. E mi terrei prudentemente alla larga da cifre per quanto ricavate da campioni scientifici. Direi che purtroppo la sensazione è che la terza area sia quella più vasta. Ed è lì che bisogna intervenire di più perché solo con un lavoro lungo, che renda il rispetto delle regole un modo naturale di vita comunitaria, si taglia l’erba nel giardino ora fiorente della ‘ndrangheta. Anche lo sviluppo della comunità ne avrà riflessi decisivi perché dal rispetto delle regole e dal fare ognuno il proprio dovere deriva una migliore qualità della vita e del funzionamento delle istituzioni, della pubblica amministrazione e delle attività private. E se un appalto sarà regolare e la ditta che deve depurare i liquami funziona bene e se i cittadini non gettano dalla riva o dalle barche l’immondizia in acqua, il mare non sarà inquinato e offrirà il suo prezioso spettacolo al godimento di tutti, anche di quei turisti che verranno più copiosi perché soddisfatti. E così via elencando in ogni campo le buone pratiche e i loro effetti. In tal modo si restringerà l’area della discrezionalità che alimenta la prepotenza e la sopraffazione. Poi e contestualmente viene l’azione repressiva dello Stato, che deve essere costante e profonda, ma essa sarà sempre insufficiente se mancherà quell’azione di ognuno che con i propri comportamenti quotidiani contribuirà a migliorare la vita di tutti. E’ la rivoluzione ordinaria che serve alla Calabria e al Mezzogiorno. Che non esclude interventi speciali e provvedimenti finalizzati, grandi e piccole opere. Occorre modificare il contesto e questo potrà determinarlo solo un cambio profondo e generalizzato di mentalità e di comportamenti. Siamo partiti da Giuseppina, Lea e Maria Concetta e dalle donne. Ci ritorniamo dopo questo lungo giro per dire ancora con più forza che noi maschi, che abbiamo avuto tutte le leve del comando da sempre, abbiamo fallito. Si facciano avanti le donne (senza chiedere “permesso”) e i giovani (meno marce della fede e più tensione e battaglie), la cambino loro questa società e ci costringano a seguirli in questa impresa che serve al bene dei nostri figli e nipoti.

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