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NON era un’associazione di tipo mafioso, secondo il tribunale del riesame di Bologna, quella composta dai calabresi che faceva profitti con il gioco illegale on-line e con le slot manomesse. Si tratta, tra l’altro, delle persone che, intercettate in una telefonata, parlavano di «sparare in bocca» al giornalista della Gazzetta di Modena, Giovanni Tizian, poi per questo messo sotto scorta. Il cronista aveva scritto un articolo in cui associava alla criminalità organizzata Nicola Femia, 52 anni. Per gli inquirenti bolognesi si tratta in effeti di un boss della ‘ndrangheta, ma i giudici chiamati a pronunciarsi sull’inchiesta ‘Black Monkey’ hanno espresso parere differente. 

Lo scorso 23 gennaio il Gip Bruno Perla aveva emesso 29 ordinanze di custodia cautelare che andavano a smantellare un’organizzazione che, secondo la Dda bolognese, faceva profitti con il gioco illegale on-line e con le slot manomesse. Erano 150 gli indagati e al vertice, per gli inquirenti, c’era proprio Femia, residente da anni nel Ravennate.    Il giudice allora non aveva però confermato l’associazione a delinquere di tipo mafioso, derubricandola in associazione a delinquere semplice. Per questo la Procura aveva fatto ricorso. Tra le posizioni oggetto della discussione oltre a quella di Femia (detenuto a Piacenza), quella dei figli Nicola Rocco e Guendalina (rispettivamente ora in carcere e ai domiciliari, difesi dall’avvocato Matteo Murgo) e quella di Torello. 

Ora il Riesame, come già il gip, ha riconosciuto per alcuni reati l’aggravante secondo cui gli indagati hanno usato metodi mafiosi, ma al contrario di quanto chiesto dalla Procura non ha riconosciuto la sussistenza di una autonoma struttura mafiosa. «Dopo una attenta lettura delle motivazioni – ha detto il procuratore aggiunto Valter Giovannini, delegato ai rapporti con la stampa – valuteremo se ricorrere in Cassazione». 

 

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