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POTENZA – Si inizia con la costituzione della parti civili e lista dei testimoni, ma le previsioni annunciano tensioni anche su questa.
Non è un processo qualunque quello al via stamane nel palazzo di giustizia di Potenza per i 3 cardiochirurghi del San Carlo imputati per la morte di Elisa Presta, la 71enne calabrese, che il 28 maggio del 2013 era venuta nel capoluogo per sottoporsi a un intervento di sostituzione di valvole aortiche.
In aula dovranno comparire tre medici, già finiti agli arresti domiciliari a ottobre nell’ambito dell’inchiesta coordinata dal procuratore Luigi Gay e dal pm Annagloria Piccininni.
L’accusa nei loro confronti è di omicidio colposo in concorso, perché «nonostante l’avvenuto decesso della Presta», a causa della lesione di una vena durante l’apertura dello sterno e di un maldestro tentativo di ripararla, «l’intervento veniva continuato e portato a termine, con l’inutile e programmata sostituzione della valvola e il successivo trasferimento del paziente già morto in terapia intensiva».
Una messinscena – secondo gli inquirenti – necessaria per «alterare quanto realmente accaduto». Per questo Marraudino, che «sarebbe stato considerato direttamente responsabile dell’accaduto (…) anche in una prospettiva di eventuali richieste risarcitorie», è accusato anche di falso in atto pubblico.
La morte di Elisa Presta era finita sotto la lente degli investigatori dopo un dettagliato esposto anonimo recapitato in Procura nell’autunno del 2013. L’ultimo di una lunga serie ambientato nei corridoi della cardiochirugia del San Carlo, dove i veleni accompagnano ciclicamente l’avvicendarsi dei primari “esterni” e le ambizioni frustrate degli altri.
Ma il caso sarebbe salito alla ribalta delle cronache nazionali soltanto lo scorso agosto con la diffusione online della “confessione” shock di Cavone, che in un audio registrato di nascosto all’interno del reparto ammetteva di aver «lasciato ammazzare» la donna dai suoi colleghi e puntava il dito in particolare contro il primario.
La ricostruzione dell’accaduto effettuata da Cavone differisce non poco con quanto sostenuto dai periti della Procura, per cui la causa della morte sarebbe stata un grave shock emorragico. Eppure di recente anche il Riesame ha sposato la sua tesi, confermando le esigenze cautelari nei confronti del primario.
Secondo i giudici del Tribunale della libertà non si può escludere «l’efficienza causale della manovra di clampaggio (chiusura con una pinza o un attrezzo chiamato “clamp”, ndr) della vena cava», effettuata da Marraudino per fermare l’emorragia in corso, «nella produzione dell’evento mortale». Per questo il collegio presieduto da Luigi Barrella, Silvia Palladino estensore e Angela Matella consigliere, si spinge a sostenere che dal momento in cui è stata effettuata la manovra: «la vicenda si inserisce in un quadro di responsabilità caratterizzato da elementi che sembrano collocarsi al limite della gravissima negligenza professionale, ai confini della consapevole accettazione del rischio della morte della paziente per danno celebrale, profilo quest’ultimo che sarà oggetto di valutazione approfondimento in sede dibattimentale».
Oggi in aula, assieme ai familiari della donna, sono attesi anche i legali dell’azienda ospedaliera San Carlo, che potrebbe costituirsi come parte civile.

l.amato@luedi.it

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