X
<
>

Condividi:
6 minuti per la lettura

di MATTEO COSENZA

UN tempo non tanto lontano era quasi proibito parlare di mafia. Era giudicata un’invenzione di chi voleva male a questa terra, Calabria, Campania o Sicilia che fosse. E poteva anche passare se chi parlava non era meridionale, ma era difficile che questa profanazione venisse perdonata a chi stava qui, nel Sud, a denunciare le violenze e le sopraffazioni che la gente perbene doveva subire dai delinquenti organizzati in cosche o ’ndrine. Anche i magistrati spesso facevano finta che il fenomeno non esisteva e in molti atti e sentenze si parlava genericamente di reati, di pene e quant’altro. D’altro canto i magistrati che invece inquadravano i fatti in un contesto organizzato che condizionava la vita della gente e della società diventavano subito nemici, esposti ai corvi, all’isolamento, al venticello impetuoso della calunnia organizzata. L’altra sera un uomo di legge appassionato, allievo di Falcone e Borsellino – parliamo di Antonio Ingroia -ha ricordato che i magistrati sono buoni da morti perché molti così li preferiscono, sicché mentre in vita li hanno dileggiati esponendoli alla vendetta mafiosa, quando sono morti vengono ricordati come santi e benefattori. Naturalmente coloro che proseguono sulla strada dei morti diventano a loro volta bersaglio di nuovi veleni e minacce e vengono descritti come diavoli e malfattori. Specie quando – come accade a Reggio da qualche anno – rompono un ordine costituto, ed allora si muove di tutto. Pensate che alcuni uomini di prima grandezza nazionale dei servizi hanno trovato sponda per loro attività didattiche dalle parti della città dello Stretto. Meno male che nella procura di quella città operano magistrati seri e indipendenti, con un bagaglio di esperienze altrove maturate e con successi che sono passati dalla cronaca alla storia di questo paese. Un uomo del livello di Giuseppe Pignatone è, salvo prove contrarie, un regalo inaspettato per quella città e per questa regione. Le inchieste sono fondate e se si ipotizza che un consigliere regionale va condannato a quattro anni per corruzione elettorale aggravata dalle modalità mafiose, la sentenza sancisce, in primo grado, una condanna a quattro anni. Una volta era difficile anche avanzarla un’ipotesi del genere. Insomma qualcosa si muove, di cose fortunatamente ne sono accadute molte e non siamo più a quei tempi. Naturalmente a chi fa informazione continua a non essere risparmiata la lezioncina: ma parlate delle cose buone…non presentate solo cronaca nera e giudiziaria… così facendo danneggiate la nostra immagine… gli imprenditori hanno bisogno di tranquillità e non che si ripeta continuamente che qui comanda la delinquenza organizzata… Qualche mese fa stavamo alla cassa di un ristorante molto importante di Tropea quando il proprietario, a cui una persona aveva passato un giornale, nel leggere il titolo su un morto ammazzato della sua terra lo ha buttato per aria, il giornale, imprecando: “Altra bella propaganda per noi”. E ha aggiunto per specificare che del delitto non gliene fregava un accidenti: “Non hanno altro da scrivere?”. Evidentemente a lui sta bene che le attività della sua terra o sono in mano alla ‘ndrangheta o sono sottoposte al vincolo degli oboli per essa. Siamo consapevoli – e meno male che è così – che la maggioranza delle persone che abitano in Calabria o in Sicilia, pur vivendo in un contesto ambientale in cui prevale la cultura del non rispetto delle regole, sono persone oneste. Ma questo non basta se il segno alla vita collettiva lo danno le persone disoneste con le loro azioni scellerate. Le inchieste ma anche le sentenze, una dopo l’altra, un rosario interminabili di malefatte svelate, perseguite e per lo più giudicate, ci ricordano che non c’è opera pubblica che sfugga alle mire delle ‘ndrine, che si fa la fila per avere i voti dai boss, che si sciolgono consigli comunali uno dopo l’altro, che spesso chi dovrebbe nascondersi per la vergogna perché scoperto o sospettato di azioni non consone al suo grado e attendere il responso della giustizia, si lancia al contrattacco con improntitudine e arroganza. E poi ci si accorge che il Nord sta finendo nelle mani della ‘ndrangheta – anche lì ne negavano l’esistenza – e che il cancro viaggia nel mondo producendo metastasi in più continenti, ma che le sue radici ambientali, fisiche, culturali sono qui. Se ne deve parlare e se ne deve scrivere. Benvenuta, quindi, l’iniziativa del comune di Lamezia che ha organizzato per la prossima settimana un grande evento “Trame” per presentare i libri scritti sulle mafie. Una valanga di titoli, un fenomeno anche editoriale oltre che culturale e civile, che sta a dimostrare quanto grande sia ormai l’interesse per queste questioni. L’intero numero del Quotidiano della Domenica, curato da Mita Borgogno e Francesca Faillace, è dedicato a questo appuntamento: c’è un significativo racconto di Romano Pitaro, segue una ricostruzione dell’iniziativa di Lamezia da parte di Giuseppe Baldessarro che, autore egli stesso, spiega l’intenzione dei promotori, il sindaco Gianni Speranza e l’assessore alla cultura Tano Grasso, subito dopo un articolo del direttore del festival, Lirio Abbate, e a chiudere le copertine dei 53 libri che saranno presentati nei giorni di “Trame”, da quelli di David Lane e Francesco Forgione a quelli di Arcangelo Badolati e Giancarlo Caselli, da quelli di Rosaria Capacchione ed Enzo Ciconte a quelli di Piero Grasso, Nicola Gratteri e tanti altri. L’impegno degli organizzatori è notevole e sarà impresa non facile governare una macchina così complessa con tanti eventi, anche contemporanei, e una valanga di ospiti, semplici scrittori e giornalisti ma anche tanti uomini che hanno dedicato la loro vita a combattere il crimine organizzato. Un’occasione importante per i calabresi, che, orgogliosi della loro terra, ne vogliono riscattare l’immagine non nascondendo la realtà ma valorizzandone con la parola e con l’impegno la voglia di cambiamento e di riscatto. Un’occasione per stare ancora una volta dalla parte giusta. Nel settembre scorso a Reggio si svolse una manifestazione importante perché testimoniò la solidarietà dei calabresi onesti ai magistrati e alle forze dell’ordine impegnati in prima fila per difendere la nostra vita e la nostra libertà e perché indicò nell’assunzione di responsabilità della società civile, a partire dai comportamenti quotidiani dei singoli, la strada per cambiare la mentalità che favorisce l’illegalità, l’ingiustizia, il prevalere della sopraffazione. Quel seme sta producendo i suoi frutti. Bisogna insistere perché c’è tanto da fare. L’altra sera a Fuscaldo, in occasione dei premi alla memoria di un grande calabrese e di un grande italiano, Giannino Losardo, non un eroe ma semplicemente un uomo che ha sacrificato la sua vita per fare il proprio dovere, il professore Pino Arlacchi ha chiesto: ma come mai siamo ancora in tanti a ricordare un delitto di tanti anni fa? La risposta è stata chiara. In un libro di Danilo Chirico e Alessio Magro, “Dimenticati”, si ricorda che il 90 per cento dei delitti calabresi censiti (270 compresi quelli di Antonino Scopelliti e Giannino Losardo) sono rimasti senza giustizia. E una società che non rende giustizia ai suoi morti, eroi per caso che le fanno onore a eterna memoria, sarà sempre zoppa finché essi non riposeranno in pace. Ma poi abbiamo ricordato ai convenuti: perché dovremmo dimenticare e non essere numerosi qui se in questa sala non possiamo ancora pronunciare il nome degli assassini di Losardo, che in trent’anni non sono stati puniti, e che vivono tranquillamente a qualche chilometro da qui? Arrivederci a Lamezia.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE