X
<
>

Il sequestro dell'area ex Legnochimica

Condividi:
3 minuti per la lettura

COSENZA – Brusco stop per l’inchiesta sull’ex legnochimica di Rende a causa di un vero e proprio pasticcio che ha mandato su tutte le furie la Procura di Cosenza. Quest’ultima, non a caso, ha revocato il mandato conferito al professor Giovanni Sindona, docente Unical, che a marzo del 2016 era stato incaricato di accertare l’eventuale inquinamento dell’area di contrada Lecco all’epoca fresca di sequestro.

La relazione avrebbe dovuto essere ultimata a maggio dello stesso anno, ma otto mesi dopo gli inquirenti brancolavano ancora nel buio. Fino a due giorni fa, quando alcune anticipazioni sul contenuto della perizia sono finite su un giornale online.

SCOPRI I CONTENUTI SULLA EX LEGNOCHIMICA
NEL FASCICOLO AD AGGIORNAMENTO DINAMICO

I ritardi nella presentazione dell’elaborato? «Colpa della neve»; e le conclusioni di Sindona presentate come «difformi» da quelle a cui era giunto Gino Mirocle Crisci, estensore di un precedente studio sull’argomento. Non proprio una “fuga di notizie”, dunque, ma abbastanza da stropicciarsi gli occhi e innescare una reazione. A questo ha pensato il procuratore aggiunto Marisa Manzini, che ha comunicato al docente, per iscritto, l’interruzione del rapporto di fiducia tra lui e l’ufficio di Procura.

Morale della favola: serviranno un nuovo consulente, una nuova perizia e, va da sé, ancora molta pazienza prima di conoscere la verità sui veleni, presunti e non, di contrada Lecco. La zona è stata sequestrata a ottobre del 2015, contestualmente all’iscrizione nel registro degli indagati di due soci dell’azienda e del liquidatore della società con l’accusa di omessa bonifica e inquinamento ambientale.

L’inchiesta mira a far luce sui sospetti di contaminazione da metalli pesanti che gravano sull’intera area, sia sullo stabilimento industriale che sui terreni limitrofi per un raggio di 650 metri. Sotto sequestro sono finiti anche quindici pozzi, utilizzati in gran parte dai residenti per il loro fabbisogno quotidiano. L’allarme principale, infatti, riguarda proprio le falde acquifere, caratterizzate dalla presenza di alluminio, manganese, ferro, arsenico e piombo: tutti residui della lavorazione del legno.

Questo perché la Legnochimica, attiva dal 1969 al 2005, si occupava della produzione di tannino. Gli scarti di produzione venivano stipati in tre vasche non impermeabilizzate e, quest’ultime, hanno rilasciato nel tempo i loro veleni, comportando così la contaminazione delle acque. Il sequestro di ottobre, però, rappresenta solo il replay di un film già visto. Già nel 2010, infatti, gli inquirenti avevano adottato un analogo provvedimento, mossi sempre da sospetti di inquinamento da metalli pesanti. Al riguardo, c’era la consulenza redatta da Crisci, oggi rettore dell’Unical, che illustrava gli effetti nefasti generati dai rifiuti solidi e liquidi presenti nei bacini di decantazione della fabbrica.

Accadeva nel 2010 e, lo stesso Crisci, sentito sei anni dopo a sommarie informazioni aveva confermato quanto già noto: e cioè che, rispetto ad allora, la situazione non può che essere peggiorata. A conclusioni analoghe era giunto anche l’ingegnere ambientale Alessio Siciliano, anche lui arruolato dalla Procura, ma a quanto pare le deduzioni di Sindona erano di segno opposto. Acqua passata ormai, ma nel frattempo l’affaire bonifica assume sempre più i contorni del tormentone. La disinfestazione della zona, infatti, era stata intimata ai rappresentanti dell’azienda e agli amministratori comunali già nel fatidico 2010, ma senza costrutto.

Le ragioni di tale immobilismo sono da ricercare nell’incapacità politica dei soggetti coinvolti, dato che non sono bastate ben dodici conferenze dei servizi per metterli d’accordo sul da farsi. Eppure, è da decenni, ormai, che è vivo il dibattito sulla pericolosità di contrada Lecco, un tempo zona industriale dell’area urbana cosentina, ma oggi buona ad ospitare al più i capannoni delle concessionarie auto, quasi tutte concentrate in quella pianura. Ad allarmare, era soprattutto la tradizione orale che parla di un aumento di tumori registrati da quelle parti: a tutt’oggi, però, non ci sono prove per stabilire un collegamento con la Legnochimica.

Qualcuno l’ha ribattezzata anche “Terra dei fuochi” per via degli incendi – frutto di autocombustione – che spesso e volentieri si levano dai terreni circostanti: roghi che, nel tempo, non hanno fatto che far crescere l’allarme per quei fumi, la cui tossicità è stata acclarata anche dall’Arpacal.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE