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SPERAVO che non ce ne fosse bisogno, ma, per come sono andate le cose, mi vedo costretto a spiegare ai lettori del mio giornale i motivi per i quali non sarò presente al convegno che la Fondazione Giacomo Mancini ha organizzato per lunedì prossimo al Teatro Rendano in occasione del decennale della morte del grande leader calabrese e italiano. Tempo fa avevo dato la mia adesione di massima sia perché da una Fondazione mi aspettavo un’iniziativa esclusivamente storica ed ecumenica (anche dal punto di vista familiare) sia perché ero sicuro che prima di procedere all’ufficializzazione del programma sarebbe stato possibile conoscere modalità e partecipanti, così come, del resto, avviene solitamente e come in questo caso è stato fatto con altri. Non era mia intenzione condizionare le scelte della Fondazione, che in casa propria ovviamente ha il diritto di organizzare come meglio ritiene le proprie attività, ma decidere semplicemente in piena consapevolezza se partecipare o meno.

Quando sabato scorso ho appreso che nel corso di una conferenza stampa è stato illustrato il programma, dopo averlo visionato ho ritenuto di non aver alcun interesse a farne parte. Non volendo creare difficoltà o suscitare polemiche, nel pomeriggio dello stesso giorno ho comunicato che per altri impegni non ero in grado di essere presente al Rendano: un modo elegante per tirarmi fuori e rispettoso di chi aveva organizzato il programma e che comunque mi aveva riservato la cortesia dell’invito. Una silenziosa assenza, la mia, che sarebbe passata inosservata. Purtroppo, avendo constatato che nel frattempo il programma con il mio nome stava “girando” senza che ci fosse alcuna correzione, il giorno successivo, domenica, ho inviato un sms chiedendo di farlo sparire da depliant, manifesti, comunicati e quant’altro.

Ho aspettato fino a ieri ma ho visto che nulla è accaduto ed allora eccomi qui a dire, purtroppo, che non ci sarò e per dire soprattutto perché non ci sarò. Rispetto le scelte dei padroni di casa – la Fondazione Giacomo Mancini – ma nutro molte perplessità sulle scelte adottate che mi sembrano ricordare un Giacomo Mancini diverso da quello che ho conosciuto e ho studiato. Non so dove oggi, se fosse vivo, si collocherebbe ma credo che nessuno possa iscriverlo in nessuna area o partito anche perché la sua autonomia era tale che avrebbe deciso sempre da solo che cosa fare e quale politica sviluppare. Pur tuttavia, vedo molto difficile immaginare che avrebbe gradito che a celebrarlo fossero quelli che lo impiccavano ai pennoni o bruciavano la sua immagine sulle barricate della rivolta di Reggio. Il suo antifascismo – per quanto si voglia revisionare ogni cosa – è stato un dato certo e peculiare della storia sua e della sua famiglia.

In questi giorni ho trascorso un po’ di tempo a riascoltare qualcuna delle tante cassette di registrazione (oltre una ventina di ore in una dozzina di incontri tra la casa romana di piazza Cairoli e quella cosentina di via Roma) dell’intervista in cui volle raccontarsi con straordinaria disponibilità. Ne serbavo un ricordo preciso, ma ho provato una grande emozione a risentirlo e mi chiedo ancora se sono riuscito fino in fondo a trasferirla nel libro che poi fu realizzato nel 1986 e che è stato rieditato tre anni fa. Ho ridato uno sguardo anche al bel libro del compianto Antonio Landolfi. C’era prima delle nostre fatiche anche un libro dedicato a Mancini da Orazio Barrese e che lui non amava. Ma per quanto si approfondisca la sua vita, per quante tensioni e polemiche l’abbiano potuta accompagnare e per quante giravolte possano fare la storia e la politica dei disinvolti tempi recenti, su un punto mi permetto di dire che la certezza è granitica: Giacomo Mancini è stato un grande calabrese, un grande socialista, un grande antifascista, un grande uomo di sinistra. 

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