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La corte di Cassazione

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ROMA – Non pagare il canone Rai non è una violazione da trascurare e nei casi limite può portare anche ad una condanna penale. È quanto accaduto ad Antonio D. M. calabrese originario di Cosenza che dopo l’arrivo della cartella fiscale, avrebbe cercato di farla franca inviando all’Agenzia delle Entrate due falsi bollettini postali attestanti l’avvenuto pagamento dell’importo dovuto per il canone, e quello per la sanzione del ritardato pagamento, con tanto di timbro dell’ufficio postale.

La Cassazione, nell’emettere la sua sentenza definitiva sul caso (4852/2017), ha negato l’applicazione della legge sulla particolare tenuità del fatto, che esclude la punibilità penale dei reati meno gravi e di scarso allarme sociale condannando l’uomo a sei mesi di reclusione. 

Secondo quanto emerso dagli atti del processo l’uomo aveva messo in pratica il raggiro inviando al fisco che lo aveva sorpreso due bollettini postali taroccati, uno dell’importo di 107,50 euro per il canone tv del 2009 e l’altro di 8,45 euro per la sanzione del ritardo. L’evasore era stato processato per il delitto continuato di falso materiale in atto pubblico «per avere formato, in esecuzione del medesimo disegno criminoso, due falsi bollettini di versamento su conto corrente postale, recanti l’impronta dell’Ufficio postale di Camarda di Aprigliano (Cosenza), attestanti rispettivamente l’avvenuto pagamento del canone Rai e della sanzione per il ritardato pagamento, e per averne fatto uso inviandoli alla competente Agenzia delle Entrate, anche allo scopo di commettere il delitto di truffa ai danni della Rai».

Ma per questo ultimo reato non si è proceduto perchè la tv pubblica – «ente offeso» – non ha presentato querela. Ad avviso della Suprema Corte, non è possibile applicare la riforma che ha depenalizzato i reati meno gravi perchè la stessa legge «nega la possibilità di riconoscere la causa di esclusione della punibilità in favore di chi abbia commesso più reati della stessa indole, anche nella ipotesi in cui ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, al caso di reati della stessa indole presi in considerazione nell’ambito del medesimo procedimento penale perchè avvinti dal vincolo della continuazione».

Per i giudici «non può dunque che rilevarsi l’impossibilità di riconoscere all’imputato la causa di non punibilità, essendosi egli reso responsabile, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, di due reati della stessa indole, in quanto lesivi del medesimo bene giuridico, vale a dire quello della fede pubblica». Il verdetto conferma quello emesso dalla Corte di Appello di Catanzaro il 12 aprile del 2016 a convalida della sentenza di primo grado pronunciata dal Tribunale di Cosenza.

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