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SAPEVA che quelle frasi l’avrebbero offesa. Era talmente consapevole della valenza offensiva e non faceva nulla per nasconderlo a tal punto che in calce agli scritti apponeva la sua firma. Singole espressioni, parole ingiuriose utilizzate per denigrare e offendere. In una sola parola utilizzate per diffamare. Alla fine le sono costate una sentenza di condanna a 8 mesi di reclusione e un risarcimento che sarà quantificato in altra sede.

È uno di quei casi in cui il giudice ha decretato l’uso distorto dei social network, oggi più che mai strumento di comunicazione. Ed evidentemente lei, la donna condannata, voleva far conoscere al mondo virtuale, i suoi sentimenti verso l’altra. Parole non certo di amicizia, non il classico “mi piace” o il “condivi” ma scritti ingiuriosi insieme alla minaccia di “dover pagare lacrime di sangue” per offenderne l’onore e il decoro scrivendo e pubblicando sulla pagina personale di Facebook di pubblico dominio e sulla sua bacheca di libero accesso. Perché tutti dovevano sapere. E più erano e meglio era.

Ovviamente con tutte le conseguenze del caso. Offesa davanti a tutti anche se non in pubblica piazza. Messa alla gogna e, vuoi o non vuoi, ne va anche della vita privata. «Facebook oggi è considerato il più diffuso e popolare dei social network ad accesso gratuito, vale a dire una rete sociale in cui può essere coinvolto un numero indeterminato di utenti o di navigatori Internet che tramite questo sito web entrano in relazione tra loro pubblicando e/o scambiandosi contenuti che sono visibili altri utenti facenti parte dello stesso gruppo o comunque a questo collegati. Molte persone – ha spiegato l’avvocato Teresa Matacera, legale della parte civile – ricorrono ai social network per manifestare i cosiddetti pubblici “sfoghi”, navigando in un mondo virtuale, espressioni di pensiero che vengono a conoscenza da parte di più persone con possibile incontrollata diffusione tra i partecipanti alla rete del social network. È evidente che gli utenti del social network sono consapevoli del fatto che altre persone possano prendere visione delle informazioni scambiate in rete ma devono essere consapevoli che l’utilizzo del sito comporta tracciabilità e conseguenziale individuazione e riconoscimento dell’autore delle informazioni lasciate in un determinato momento sul sito, in quanto i dati sopravvivono alla eventuale cancellazione dal social network». E allora gli appassionati di Facebook quando utilizzano la tastiera del computer dovrebbero fare attenzione. «L’utilizzo di Internet – conclude il legale – quindi integra l’ipotesi aggravata dell’articolo 595, co. 3, cp.p. (offesa recata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità), poiché la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l’agente meritevole di un più severo trattamento penale, anche per immediatezza del danno sociale provocato da tale comportamento».

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